Il Signore mi misura, non me ne rendo conto. Nel
profondo del cuore so che lo fa per il mio bene, perché mi ama nonostante il
mio essere indegno della vocazione che ho ricevuto, dei doni che mi ha posto
dinanzi, delle fortune che non riesco a vedere. Lui insiste, perché è Dio, perché
ha insistito fino a salire sulla Croce.
Gli strumenti sono precisi, così come i numeri che
rivelano. Il Signore li annota, lo so, anche se non si sofferma sulle cifre
come un rubricista qualsiasi: il suo abaco non lo conosco, i suoi algoritmi
sono scienza sconosciuta. Per la logica umana, quella del conto che deve sempre
tornare, quella degli interessi che devono essere pagati, la Sua gestione
risulta fallimentare. Ma non sta a me giudicare, anche se la tentazione di
farlo è forte. Senza un minimo di attenzione su questa mia caratteristica,
sarei pronto a giudicare lo stesso operato di Dio. Sono spesso nella condizione
che vive il profeta Giona a Ninive. Fare il moralista è una parte che si addice
molto alla mia supponenza. Gli errori degli altri li soppeso con acribia da
orafo. Per il prossimo la mia bilancia è tarata alla perfezione, così mi
dimentico della cordicella di Samaria e
del piombino della casa di Acab dall’indagine dai quali non mi posso sottrarre.
Mi prende come un piatto, ma non mi considera
tale. Per Lui non sono un semplice oggetto. Mi afferra, mi asciuga dai peccati
con i quali mi riempio fino a farli traboccare dall’orlo. Poi mi rovescia affinché
tutto il male coli scivolando via dai bordi. Solo quando sarò asciutto mi
appoggerà girandomi nuovamente e allora mi troverò nella condizione di
accogliere l’acqua viva che zampilla per la Vita.