giovedì 24 novembre 2022

Penso (e vorrei sbagliarmi)

 


Penso (vorrei sbagliarmi) che Il cristianesimo vada vissuto nel cuore, invece di ostentare, chiedere riconoscimenti. La tentazione dell'essere religiosi, devoti, è stata sempre l'ipocrisia, indossare la maschera. E' la mancanza di fede che sostituisce Dio al proprio io.

J.H. Newman

Il cristianesimo, quello autentico, radicale, ha un volto discreto quando si mostra nell’accoglienza del prossimo e di sé stessi. Il buon samaritano non dice nulla riguardo l’opera di soccorso prestata. Non ostenta la buona azione compiuta, ma si dimostra pronto ad aggiungere, qualora ce ne fosse bisogno e non solo dal punto di vista materiale ed economico. Il clamore delle piazze non è dell’essere cristiani, ma facile preda di indebite appropriazioni ideologiche. Quando affermo che l’essere cristiani è una condizione di vita, una qualità dello stare al mondo (questo), sento di non blaterare facili comprensioni, nemmeno un fin troppo semplice slogan. La discrezione mi aiuta ad evitare l’ipocrisia del falso moralismo e del politicamente corretto, la maschera compunta del pio credente e del ministro ingessato da ritualismi e rubricismi, magari vagamente tradizionalista. La devozione è una trappola perché, senza attenzione, si tramuta nella mia devozione[1] (o nelle mie devozioni, private, personali, cucite su misura) andando ad amplificare la risonanza dell’ego che si gonfia con questa falsa religiosità anziché riempirla con il suo significato: consacrarsi a Dio abbandonandosi alla Sua misericordia e provvidenza. Al contrario la devozione si svuota divenendo una pratica ripetuta di gesti, un’abitudine spesso segnata da comportamenti compulsivi ed intolleranti. La devozione dovrebbe essere accolta come una pratica, dunque lo strumento necessario alla ricerca della fede e non lo scopo del mio tentare di essere devoto solo per illudermi con una vaga sensazione di sicurezza.



[1] Da devoro, latino devòtus, da devovère  promettere attraverso un voto, consacrarsi a Dio.

domenica 20 novembre 2022

Riflessione sulla Solennità di Cristo Re

 

Colossesi 1, 13-14

E’ Lui, infatti, che ci ha liberati dal potere delle tenebre e trasferiti nel Regno del Figlio del suo amore per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati.

E’ Lui, il Padre, che dalla dispersione di una vita drogata dalla distrazione mi conduce nell’interiorità della vita nello Spirito. Nel profondo che mi porto dentro non posso discendere da solo perché la libertà di intus-legere è grazia che viene concessa lungo il cammino della ricerca della fede, nel silenzio del raccoglimento, nella grazia di relazioni umane mature e autentiche, nell’amore. Il potere delle tenebre mi vuole mantenere schiavo dell’esteriorità dove regnano disattenzione e bramosia di un insano divertimento, mi vuole inebriare con false speranze e illusioni, imbonire con le seduzioni di questo mondo.

Accogliendo Gesù nel centro del cuore, il centro del mio mondo, avvertirò il senso forte dell’essere trasferito. Il verbo usato per tradurre l’originale è intrigante, forte. In latino abbiamo trans ferre, portare al di là. L’ingresso nel Regno è un andare oltre, è l’attraversamento di un confine, il guadare all’altra riva e, come si dice in oriente, andare sull’altra sponda del fiume. Questo significa andare al di là di una condizione di tenebre, questo mondo, il mondo del peccato,  verso una condizione una di luce, il Regno dei Cieli/Regno di Dio. In mezzo scorre la transitorietà, l’impermanenza del samsara. Tutto scorre, vero, come diceva Eraclito e nel suo trasecolare rimane il fuoco che non consuma, l’eterno ardere che non brucia così come viene vissuto nelle esperienze mistiche.

Chi compie l’atto di trasferire? In Colossesi 1, 13 è il Padre a compiere il trasferimento e questo dopo la liberazione dalla morsa delle tenebre7peccato. Quanto contano, allora, gli sforzi che compio cercando una condizione il più dignitosa possibile per riuscire a carpire momenti di consapevolezza? Seguendo Paolo in questi passi l’uomo non può nulla se non camminare per crescere nella fede abbandonandosi a Cristo. Aggiungerei, che l’abbandono può avvenire solo quando si accoglie il Vangelo. Il mio operare acquisisce senso solo dentro questa dinamica di accoglienza/abbandono. Ed è entrando in questa dimensione che la regalità di Gesù può essere compresa in tutta la sua ricchezza spirituale e materiale. L’andare oltre, infatti, il passare al di là è un divenire, un evolvere che hic et nunc permette di godere di un’esistenza differente a livello qualitativo e quantitativo (pienezza della vita) sempre in crescita.

 

venerdì 18 novembre 2022

Scrittura, preghiera e difficoltà

Un cristianesimo in difficoltà (e quale non lo è? È anche vero che quello della nostra Europa odierna sta peggio di altri) ha innanzitutto il bisogno di reimparare a pregare.

Fulvio Ferrario, introduzione a ‘La passione della parola Dio’ di Kurt Marti

Come si re-impara a pregare? Tornando alla fonte della Scrittura, questo è ovvio, ma non scontato perché nella preghiera mettiamo una creatività troppe volte fuori controllo. Ma chi deve re-imparare vuol dire che aveva prima imparato e poi dimenticato o messo da parte, oppure rinnegato. E se la particella re vuol indicare una condizione originaria dove e quando la preghiera non è solo un balbettare parole, ma un contemplare vivo e pieno in sé stessi, negli altri e nel creato? 

Mi verrebbe da aggiungere che la preghiera è poesia, ma non vorrei essere frainteso perché la parola poesia è troppo spesso caricata da significati e aspettative che, malgrado le buone premesse, quasi sempre arrivano a deludere. Dunque? La preghiera dovrebbe riuscire a dire la bellezza della fede, ma anche questo è un problema: procedendo secondo una simile prospettiva il rischio è quello di ridurre la fede ad un fatto estetico svuotando e la fede e il fatto estetico della loro complessità.

Fulvio Ferrario, introducendo alla raccolta di poesie/preghiere di Kurt Marti La passione della parola Dio[1], afferma senza troppa retorica che il cristianesimo è in difficoltà. Non posso dargli torto. Di questa verità non mi stupisco più. Fin dalla sua origine, dalla nascita di Gesù di Nazareth, e prima ancora che cominciasse a predicare il Regno dei Cieli,  il rischio di cadere vittima di una inutile strage ha immediatamente compromesso la tranquillità della sua infanzia facendo di Lui un sopravvissuto e un esule (come Mosè). Non oso troppo se sostengo che il cristianesimo è un’arte della sopravvivenza nelle difficoltà che questo mondo inscena per allontanarmi da ogni forma di attenzione e raccoglimento, dunque di preghiera e desiderio di tornare alle origini che altro non sono che il compimento nell’eterno di passato, presente e futuro.

La poesia può giungere a questa sintesi vitale dentro quella che è un’esplosione di vita, un fluire dell’amore. Ma lo fa con discrezione, nell’intimo, perché ogni parola deve essere assaporata, deglutita, digerita, scomposta nelle sue essenze etimologiche, ascoltata mentre la si legge e soprattutto, detta a voce alta: recitata. Si, declamata o, se si preferisce dato che il gesto poetico è un atto liturgico, proclamata. E dopo, quando l’eco delle parole si sarà spento, gustare il silenzio del ri-cordo perché ri-cordare è ritornare nel profondo del cuore. La condizione del silenzio ha un suo fascino e, paradossalmente, non si può fare esperienza della preghiera senza assaporarne la sconcertante altezza, profondità e larghezza del la poesia che ne scaturisce come per miracolo.

Nella Baghavad-Gita 13, 10 viene detto del disgusto per i luoghi troppo frequentati come un segno che evidenzia la chiamata a compiere un cammino di totale conversione. La preghiera, quella autentica è una condizione di raccoglimento e silenzio, un allontanamento dal rumore, uno sforzo e non un invito alla distrazione con una ripetizione compulsiva e vuota di formule che spesso non sono nemmeno comprese. La poesia della preghiera, anche quando ruvida come quella propria di Kurt Marti, deve produrre, comporre una condizione attraverso la quale maturare nella ricerca della fede. Deve richiamare, questo è il significato etimologico del verbo re-citare, la fonte della Parola di Dio per scoprire che nella Bibbia abbiamo esempi alti di poesia poco considerati.

Agendo secondo questo registro, nella ripetizione di un gesto ed un detto, si riempie di ricordo la vita, la si recita, la si proclama e nell’equilibrio di pace che scaturisce, anche se appena percepito, si sopravvive nella difficoltà perché è dentro la selva di incertezze che si comincia a scorgere la certezza dell’esperienza di fede.

 

 

 



[1]Kurt Marti, La passione della parola Dio, Claudiana, Torino 2014

mercoledì 16 novembre 2022

Tu dagli occhi così puri


Abacuc 1, 13

Tu dagli occhi così puri

Che non puoi vedere il male

E non puoi guardare l’iniquità,

perché vedendo i malvagi taci

mentre l’empio ingoia il giusto?

 

Perché questo tacere? Qual è il significato di questo rimanere muti? Che cosa passa dentro un silenzio che non esprime raccoglimento, ma altro?

Una persona tace quando rimane turbata nella propria sensibilità, quando cade nella costernazione più disarmante davanti all’abisso delle malvagità umane. Anche Dio/Iod, il Padre, colui che dopo il Diluvio si è ripromesso di non lasciare più che l’umanità toccasse il fondo della perversione per evitare catastrofi, può rimanere senza parole, e non è affatto un segno di impotenza. Quando allungo la mano per risollevare il mio prossimo nel gesto del perdono e dopo tempo mi accorgo che all’infuori di me, all’altro non è servito a nulla, per non cadere vittima della passione della rabbia, non dell’ira, si apre il silenzio della costernazione davanti all’immaturità umana, all’incapacità di comprendere, alla totale indifferenza, quella che da voce all’ego e al mio (le mie ragioni, i miei diritti, la mia giustizia etc…)

Dopo le scempio di una quotidianità corrotta rimane a sconcertare l’abisso della malvagità che gli uomini riescono ad aprire tra di loro e, di conseguenza, con Dio stesso. Sono sempre brutali gli empi che ingoiano i giusti, gli orchi che violentano l’innocenza. La Parola sollecita sempre in quello che non ci dice, perché a parlare è il silenzio di Dio, il suo farsi mettere da parte lasciando scoperto il baratro della libertà della quale si ciancia sempre troppo.

E allora mi perdo in quel Tu dagli occhi così puri, gli occhi di Gesù su questo mondo, il Suo sguardo nella Passione, uno sguardo che vede oltre, nella speranza. E’ questo che domando di imparare lungo il mio cammino.

venerdì 11 novembre 2022

Nocciolo d'oliva. Su un pensiero di Erri De Luca

 


Leggere scritture sacre è obbedire a una precedenza dell’ascolto. Inauguro i miei risvegli con un pugno di versi così che il giro del giorno piglia un filo d’inizio. Posso poi pure sbandare per il resto delle ore dietro alle minuzie e al da farsi. Intanto ho trattenuto per me una caparra di parole dure, un nocciolo d’oliva da rigirare in bocca.

Erri De Luca, Nocciolo d’oliva

 

Leggere scritture sacre è obbedire a una precedenza dell’ascolto. Sacrosanto! Prima viene sempre l’ascolto. Perché lo dimentico? Perché non ho ancora imparato a fare silenzio. Solo nel raccoglimento del silenzio si può cominciare ad ascoltare. Abramo vive l’ascolto nella notte. Muhammad ha ascoltato nella grotta di Hira vivendo la sua esperienza teopatica. I saggi che hanno dato avvio alla tradizione orale vedica hanno ascoltato (Śruti) la rivelazione. Ascoltare è un’esperienza umana, aurorale, una precedenza appunto perché dovrebbe venire prima. Senza questo riconoscimento non è possibile leggere nessuna scrittura sacra. Ascoltare, e il saperlo fare, riempie di senso il quotidiano insegnando ad accogliere sé stessi nell’incontro con l’altro e con il mondo. Ma prima è sempre un ascoltarsi rivolgendo lo sguardo dentro, imparando l’arte dell’intus lègere. Per queste ragioni, e senza timore alcuno, posso affermare che un persona è intelligente perché ha appreso la via dell’ascolto.

Il giro del giorno piglia un filo d’inizio. Un filo. Sembra che un esilissimo filo sia sufficiente per non perdere l’orientamento nella distrazione di questo mondo. Mi sveglio. Seguo i consunti rituali mattutini fatti di poche cose iniziando con l’impegno della Liturgia delle Ore (già questa una benedizione) per concludere con la Scrittura. Questo per me. Da come leggo, e su questa riflessione sono tornato diverse volte, Per De Luca la Bibbia è un appiglio, è la sporgenza alla quale aggrapparsi per non precipitare nel vuoto del baratro della quotidianità. Il giorno ha un suo giro, come il vento. Il giro, un cammino che si compie indipendentemente dalla mia/nostra volontà. Il giro ha sempre un inizio e una fine, altrimenti non sarebbe un giro, una sorta di cerchio, ma una migrazione. Chi fa un giro ritorna sempre a scapito dell’ineluttabile e della prigionia nella casualità.

E’ vero. Anche se spesso i versetti che si leggono sembrano lontani e muti, talvolta grigi come i reperti delle epoche remote, domandano di andare oltre, di non stancarsi mai dello sforzo perché prima o poi si aprono infrangendo il velo di Maya per rivelare tesori insospettati.  Questo modo di agire ha un suo gusto. Si fonda su un ricordo, un appuntamento che profuma di impegno schiudendo alla dimensione della possibilità. Per cogliere ciò che è possibile devo essere in una condizione qualitativamente diversa da quella ordinaria. Allora giungerò ad assaporare l’Inizio, io che sono iniziato, cominciato, e sarò finalmente in grado di penetrare in un attimo di estasi.

Posso poi pure sbandare…Dovesse accadere saprò che ho trattenuto per me un qualche cosa di prezioso. Non è per niente scontato, certo, ma quello che pesa è l’averci onestamente provato. La banalità cerca sempre di portarmi via tutto quello che può riducendomi ad un misero cencio ecco perché non bisogna cedere, ma resistere. Se so che le cose sono messe come sono, significa che la risoluzione del problema deve passare attraverso un’altra via, quella che la Scrittura mi indica da secoli.

Bella l’immagine del nocciolo d’oliva. Se sono riuscito ad assaporare il gusto della polpa, poca ma intensa nella sua fragranza, il nocciolo che trattengo in bocca mi rimanda sempre all’intero. Anche se non con le stesse proprietà, veicola un suo gusto stimolando la ruminazione, quella ruminatio praticata dentro quel santo istituto che è la Lectio divina.

Parole dure. E allora? Chissà per quale motivo mi hanno insegnato che non c’è nulla di duro nell’esperienza cristiana, che tutto è gratuito, che Gesù passa e trasforma tutto con una bacchetta magica. Sbarazzarsi di tutte le false immagini che mi hanno fatto e mi sono fatto di Dio non è per nessuna ragione così semplice. Probabilmente è perché per demolire le comodità di una credenza infantile devo rischiare giungendo alla tabula rasa dell’ateismo, quando scatta la molla del rifiuto. La fede non ha nulla della credenza. La fede la respiro nella Scrittura quando dopo l’esperienza di soffocare torno a respirare a pieni polmoni e la cosa non è per nulla indolore. Sono parole che respingono, vero. Ma non mi devo stupire. L’idea di intraprendere un lungo cammino non incoraggia mai, anzi. Lo ammetto senza retorica: la mia comodità spirituale ha bisogno di parole dure, taglienti, per ritrovare il digiuno della ricerca.

Sputare il nocciolo, dunque, assumerebbe i connotati di una rinuncia che sa già di spreco, dispersione…disattenzione.

Un ultimo pensiero. L’ulivo è un albero biblico, squisitamente evangelico. L’olio, il suo estratto attraverso la sapiente opera di spremitura, un balsamo del quale spesso dimentichiamo le virtù. Comunque, nel frantoio sono lavorati anche i noccioli.