J.H. Newman
Il cristianesimo, quello autentico, radicale, ha un volto
discreto quando si mostra nell’accoglienza del prossimo e di sé stessi. Il buon
samaritano non dice nulla riguardo l’opera di soccorso prestata. Non ostenta la
buona azione compiuta, ma si dimostra pronto ad aggiungere, qualora ce ne fosse
bisogno e non solo dal punto di vista materiale ed economico. Il clamore delle
piazze non è dell’essere cristiani, ma facile preda di indebite appropriazioni
ideologiche. Quando affermo che l’essere cristiani è una condizione di vita,
una qualità dello stare al mondo (questo), sento di non blaterare facili
comprensioni, nemmeno un fin troppo semplice slogan. La discrezione mi aiuta ad
evitare l’ipocrisia del falso moralismo e del politicamente corretto, la
maschera compunta del pio credente e del ministro ingessato da ritualismi e rubricismi,
magari vagamente tradizionalista. La devozione è una trappola perché, senza
attenzione, si tramuta nella mia devozione[1] (o nelle
mie devozioni, private, personali, cucite su misura) andando ad amplificare la
risonanza dell’ego che si gonfia con questa falsa religiosità anziché riempirla
con il suo significato: consacrarsi a Dio abbandonandosi alla Sua misericordia
e provvidenza. Al contrario la devozione si svuota divenendo una pratica
ripetuta di gesti, un’abitudine spesso segnata da comportamenti compulsivi ed
intolleranti. La devozione dovrebbe essere accolta come una pratica, dunque lo
strumento necessario alla ricerca della fede e non lo scopo del mio tentare di
essere devoto solo per illudermi con una vaga sensazione di sicurezza.
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