Fulvio Ferrario, introduzione a ‘La passione della parola Dio’ di Kurt Marti
Come si re-impara a pregare? Tornando alla fonte della Scrittura, questo è ovvio, ma non scontato perché nella preghiera mettiamo una creatività troppe volte fuori controllo. Ma chi deve re-imparare vuol dire che aveva prima imparato e poi dimenticato o messo da parte, oppure rinnegato. E se la particella re vuol indicare una condizione originaria dove e quando la preghiera non è solo un balbettare parole, ma un contemplare vivo e pieno in sé stessi, negli altri e nel creato?
Mi
verrebbe da aggiungere che la preghiera è poesia, ma non vorrei essere
frainteso perché la parola poesia è troppo spesso caricata da significati e
aspettative che, malgrado le buone premesse, quasi sempre arrivano a deludere.
Dunque? La preghiera dovrebbe riuscire a dire la bellezza della fede, ma anche
questo è un problema: procedendo secondo una simile prospettiva il rischio è
quello di ridurre la fede ad un fatto estetico svuotando e la fede e il fatto
estetico della loro complessità.
Fulvio
Ferrario, introducendo alla raccolta di poesie/preghiere di Kurt Marti La
passione della parola Dio[1], afferma senza troppa
retorica che il cristianesimo è in difficoltà. Non posso dargli torto. Di
questa verità non mi stupisco più. Fin dalla sua origine, dalla nascita di Gesù
di Nazareth, e prima ancora che cominciasse a predicare il Regno dei
Cieli, il rischio di cadere vittima di
una inutile strage ha immediatamente compromesso la tranquillità della sua
infanzia facendo di Lui un sopravvissuto e un esule (come Mosè). Non oso troppo
se sostengo che il cristianesimo è un’arte della sopravvivenza nelle difficoltà
che questo mondo inscena per allontanarmi da ogni forma di attenzione e
raccoglimento, dunque di preghiera e desiderio di tornare alle origini che
altro non sono che il compimento nell’eterno di passato, presente e futuro.
La
poesia può giungere a questa sintesi vitale dentro quella che è un’esplosione
di vita, un fluire dell’amore. Ma lo fa con discrezione, nell’intimo, perché
ogni parola deve essere assaporata, deglutita, digerita, scomposta nelle sue
essenze etimologiche, ascoltata mentre la si legge e soprattutto, detta a voce
alta: recitata. Si, declamata o, se si preferisce dato che il gesto poetico è
un atto liturgico, proclamata. E dopo, quando l’eco delle parole si sarà
spento, gustare il silenzio del ri-cordo perché ri-cordare è
ritornare nel profondo del cuore. La condizione del silenzio ha un suo fascino
e, paradossalmente, non si può fare esperienza della preghiera senza
assaporarne la sconcertante altezza, profondità e larghezza del la poesia che
ne scaturisce come per miracolo.
Nella
Baghavad-Gita 13, 10 viene detto del disgusto per i luoghi troppo
frequentati come un segno che evidenzia la chiamata a compiere un cammino
di totale conversione. La preghiera, quella autentica è una condizione di
raccoglimento e silenzio, un allontanamento dal rumore, uno sforzo e non un
invito alla distrazione con una ripetizione compulsiva e vuota di formule che
spesso non sono nemmeno comprese. La poesia della preghiera, anche quando
ruvida come quella propria di Kurt Marti, deve produrre, comporre una
condizione attraverso la quale maturare nella ricerca della fede. Deve
richiamare, questo è il significato etimologico del verbo re-citare, la fonte
della Parola di Dio per scoprire che nella Bibbia abbiamo esempi alti di poesia
poco considerati.
Agendo
secondo questo registro, nella ripetizione di un gesto ed un detto, si riempie
di ricordo la vita, la si recita, la si proclama e nell’equilibrio di pace che
scaturisce, anche se appena percepito, si sopravvive nella difficoltà perché è
dentro la selva di incertezze che si comincia a scorgere la certezza
dell’esperienza di fede.
molto interessante!!!
RispondiEliminaGrazie Massimo
Grazie Luigi! Buona giornata.
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