giovedì 24 novembre 2022

Penso (e vorrei sbagliarmi)

 


Penso (vorrei sbagliarmi) che Il cristianesimo vada vissuto nel cuore, invece di ostentare, chiedere riconoscimenti. La tentazione dell'essere religiosi, devoti, è stata sempre l'ipocrisia, indossare la maschera. E' la mancanza di fede che sostituisce Dio al proprio io.

J.H. Newman

Il cristianesimo, quello autentico, radicale, ha un volto discreto quando si mostra nell’accoglienza del prossimo e di sé stessi. Il buon samaritano non dice nulla riguardo l’opera di soccorso prestata. Non ostenta la buona azione compiuta, ma si dimostra pronto ad aggiungere, qualora ce ne fosse bisogno e non solo dal punto di vista materiale ed economico. Il clamore delle piazze non è dell’essere cristiani, ma facile preda di indebite appropriazioni ideologiche. Quando affermo che l’essere cristiani è una condizione di vita, una qualità dello stare al mondo (questo), sento di non blaterare facili comprensioni, nemmeno un fin troppo semplice slogan. La discrezione mi aiuta ad evitare l’ipocrisia del falso moralismo e del politicamente corretto, la maschera compunta del pio credente e del ministro ingessato da ritualismi e rubricismi, magari vagamente tradizionalista. La devozione è una trappola perché, senza attenzione, si tramuta nella mia devozione[1] (o nelle mie devozioni, private, personali, cucite su misura) andando ad amplificare la risonanza dell’ego che si gonfia con questa falsa religiosità anziché riempirla con il suo significato: consacrarsi a Dio abbandonandosi alla Sua misericordia e provvidenza. Al contrario la devozione si svuota divenendo una pratica ripetuta di gesti, un’abitudine spesso segnata da comportamenti compulsivi ed intolleranti. La devozione dovrebbe essere accolta come una pratica, dunque lo strumento necessario alla ricerca della fede e non lo scopo del mio tentare di essere devoto solo per illudermi con una vaga sensazione di sicurezza.



[1] Da devoro, latino devòtus, da devovère  promettere attraverso un voto, consacrarsi a Dio.

domenica 20 novembre 2022

Riflessione sulla Solennità di Cristo Re

 

Colossesi 1, 13-14

E’ Lui, infatti, che ci ha liberati dal potere delle tenebre e trasferiti nel Regno del Figlio del suo amore per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati.

E’ Lui, il Padre, che dalla dispersione di una vita drogata dalla distrazione mi conduce nell’interiorità della vita nello Spirito. Nel profondo che mi porto dentro non posso discendere da solo perché la libertà di intus-legere è grazia che viene concessa lungo il cammino della ricerca della fede, nel silenzio del raccoglimento, nella grazia di relazioni umane mature e autentiche, nell’amore. Il potere delle tenebre mi vuole mantenere schiavo dell’esteriorità dove regnano disattenzione e bramosia di un insano divertimento, mi vuole inebriare con false speranze e illusioni, imbonire con le seduzioni di questo mondo.

Accogliendo Gesù nel centro del cuore, il centro del mio mondo, avvertirò il senso forte dell’essere trasferito. Il verbo usato per tradurre l’originale è intrigante, forte. In latino abbiamo trans ferre, portare al di là. L’ingresso nel Regno è un andare oltre, è l’attraversamento di un confine, il guadare all’altra riva e, come si dice in oriente, andare sull’altra sponda del fiume. Questo significa andare al di là di una condizione di tenebre, questo mondo, il mondo del peccato,  verso una condizione una di luce, il Regno dei Cieli/Regno di Dio. In mezzo scorre la transitorietà, l’impermanenza del samsara. Tutto scorre, vero, come diceva Eraclito e nel suo trasecolare rimane il fuoco che non consuma, l’eterno ardere che non brucia così come viene vissuto nelle esperienze mistiche.

Chi compie l’atto di trasferire? In Colossesi 1, 13 è il Padre a compiere il trasferimento e questo dopo la liberazione dalla morsa delle tenebre7peccato. Quanto contano, allora, gli sforzi che compio cercando una condizione il più dignitosa possibile per riuscire a carpire momenti di consapevolezza? Seguendo Paolo in questi passi l’uomo non può nulla se non camminare per crescere nella fede abbandonandosi a Cristo. Aggiungerei, che l’abbandono può avvenire solo quando si accoglie il Vangelo. Il mio operare acquisisce senso solo dentro questa dinamica di accoglienza/abbandono. Ed è entrando in questa dimensione che la regalità di Gesù può essere compresa in tutta la sua ricchezza spirituale e materiale. L’andare oltre, infatti, il passare al di là è un divenire, un evolvere che hic et nunc permette di godere di un’esistenza differente a livello qualitativo e quantitativo (pienezza della vita) sempre in crescita.

 

venerdì 18 novembre 2022

Scrittura, preghiera e difficoltà

Un cristianesimo in difficoltà (e quale non lo è? È anche vero che quello della nostra Europa odierna sta peggio di altri) ha innanzitutto il bisogno di reimparare a pregare.

Fulvio Ferrario, introduzione a ‘La passione della parola Dio’ di Kurt Marti

Come si re-impara a pregare? Tornando alla fonte della Scrittura, questo è ovvio, ma non scontato perché nella preghiera mettiamo una creatività troppe volte fuori controllo. Ma chi deve re-imparare vuol dire che aveva prima imparato e poi dimenticato o messo da parte, oppure rinnegato. E se la particella re vuol indicare una condizione originaria dove e quando la preghiera non è solo un balbettare parole, ma un contemplare vivo e pieno in sé stessi, negli altri e nel creato? 

Mi verrebbe da aggiungere che la preghiera è poesia, ma non vorrei essere frainteso perché la parola poesia è troppo spesso caricata da significati e aspettative che, malgrado le buone premesse, quasi sempre arrivano a deludere. Dunque? La preghiera dovrebbe riuscire a dire la bellezza della fede, ma anche questo è un problema: procedendo secondo una simile prospettiva il rischio è quello di ridurre la fede ad un fatto estetico svuotando e la fede e il fatto estetico della loro complessità.

Fulvio Ferrario, introducendo alla raccolta di poesie/preghiere di Kurt Marti La passione della parola Dio[1], afferma senza troppa retorica che il cristianesimo è in difficoltà. Non posso dargli torto. Di questa verità non mi stupisco più. Fin dalla sua origine, dalla nascita di Gesù di Nazareth, e prima ancora che cominciasse a predicare il Regno dei Cieli,  il rischio di cadere vittima di una inutile strage ha immediatamente compromesso la tranquillità della sua infanzia facendo di Lui un sopravvissuto e un esule (come Mosè). Non oso troppo se sostengo che il cristianesimo è un’arte della sopravvivenza nelle difficoltà che questo mondo inscena per allontanarmi da ogni forma di attenzione e raccoglimento, dunque di preghiera e desiderio di tornare alle origini che altro non sono che il compimento nell’eterno di passato, presente e futuro.

La poesia può giungere a questa sintesi vitale dentro quella che è un’esplosione di vita, un fluire dell’amore. Ma lo fa con discrezione, nell’intimo, perché ogni parola deve essere assaporata, deglutita, digerita, scomposta nelle sue essenze etimologiche, ascoltata mentre la si legge e soprattutto, detta a voce alta: recitata. Si, declamata o, se si preferisce dato che il gesto poetico è un atto liturgico, proclamata. E dopo, quando l’eco delle parole si sarà spento, gustare il silenzio del ri-cordo perché ri-cordare è ritornare nel profondo del cuore. La condizione del silenzio ha un suo fascino e, paradossalmente, non si può fare esperienza della preghiera senza assaporarne la sconcertante altezza, profondità e larghezza del la poesia che ne scaturisce come per miracolo.

Nella Baghavad-Gita 13, 10 viene detto del disgusto per i luoghi troppo frequentati come un segno che evidenzia la chiamata a compiere un cammino di totale conversione. La preghiera, quella autentica è una condizione di raccoglimento e silenzio, un allontanamento dal rumore, uno sforzo e non un invito alla distrazione con una ripetizione compulsiva e vuota di formule che spesso non sono nemmeno comprese. La poesia della preghiera, anche quando ruvida come quella propria di Kurt Marti, deve produrre, comporre una condizione attraverso la quale maturare nella ricerca della fede. Deve richiamare, questo è il significato etimologico del verbo re-citare, la fonte della Parola di Dio per scoprire che nella Bibbia abbiamo esempi alti di poesia poco considerati.

Agendo secondo questo registro, nella ripetizione di un gesto ed un detto, si riempie di ricordo la vita, la si recita, la si proclama e nell’equilibrio di pace che scaturisce, anche se appena percepito, si sopravvive nella difficoltà perché è dentro la selva di incertezze che si comincia a scorgere la certezza dell’esperienza di fede.

 

 

 



[1]Kurt Marti, La passione della parola Dio, Claudiana, Torino 2014

mercoledì 16 novembre 2022

Tu dagli occhi così puri


Abacuc 1, 13

Tu dagli occhi così puri

Che non puoi vedere il male

E non puoi guardare l’iniquità,

perché vedendo i malvagi taci

mentre l’empio ingoia il giusto?

 

Perché questo tacere? Qual è il significato di questo rimanere muti? Che cosa passa dentro un silenzio che non esprime raccoglimento, ma altro?

Una persona tace quando rimane turbata nella propria sensibilità, quando cade nella costernazione più disarmante davanti all’abisso delle malvagità umane. Anche Dio/Iod, il Padre, colui che dopo il Diluvio si è ripromesso di non lasciare più che l’umanità toccasse il fondo della perversione per evitare catastrofi, può rimanere senza parole, e non è affatto un segno di impotenza. Quando allungo la mano per risollevare il mio prossimo nel gesto del perdono e dopo tempo mi accorgo che all’infuori di me, all’altro non è servito a nulla, per non cadere vittima della passione della rabbia, non dell’ira, si apre il silenzio della costernazione davanti all’immaturità umana, all’incapacità di comprendere, alla totale indifferenza, quella che da voce all’ego e al mio (le mie ragioni, i miei diritti, la mia giustizia etc…)

Dopo le scempio di una quotidianità corrotta rimane a sconcertare l’abisso della malvagità che gli uomini riescono ad aprire tra di loro e, di conseguenza, con Dio stesso. Sono sempre brutali gli empi che ingoiano i giusti, gli orchi che violentano l’innocenza. La Parola sollecita sempre in quello che non ci dice, perché a parlare è il silenzio di Dio, il suo farsi mettere da parte lasciando scoperto il baratro della libertà della quale si ciancia sempre troppo.

E allora mi perdo in quel Tu dagli occhi così puri, gli occhi di Gesù su questo mondo, il Suo sguardo nella Passione, uno sguardo che vede oltre, nella speranza. E’ questo che domando di imparare lungo il mio cammino.

venerdì 11 novembre 2022

Nocciolo d'oliva. Su un pensiero di Erri De Luca

 


Leggere scritture sacre è obbedire a una precedenza dell’ascolto. Inauguro i miei risvegli con un pugno di versi così che il giro del giorno piglia un filo d’inizio. Posso poi pure sbandare per il resto delle ore dietro alle minuzie e al da farsi. Intanto ho trattenuto per me una caparra di parole dure, un nocciolo d’oliva da rigirare in bocca.

Erri De Luca, Nocciolo d’oliva

 

Leggere scritture sacre è obbedire a una precedenza dell’ascolto. Sacrosanto! Prima viene sempre l’ascolto. Perché lo dimentico? Perché non ho ancora imparato a fare silenzio. Solo nel raccoglimento del silenzio si può cominciare ad ascoltare. Abramo vive l’ascolto nella notte. Muhammad ha ascoltato nella grotta di Hira vivendo la sua esperienza teopatica. I saggi che hanno dato avvio alla tradizione orale vedica hanno ascoltato (Śruti) la rivelazione. Ascoltare è un’esperienza umana, aurorale, una precedenza appunto perché dovrebbe venire prima. Senza questo riconoscimento non è possibile leggere nessuna scrittura sacra. Ascoltare, e il saperlo fare, riempie di senso il quotidiano insegnando ad accogliere sé stessi nell’incontro con l’altro e con il mondo. Ma prima è sempre un ascoltarsi rivolgendo lo sguardo dentro, imparando l’arte dell’intus lègere. Per queste ragioni, e senza timore alcuno, posso affermare che un persona è intelligente perché ha appreso la via dell’ascolto.

Il giro del giorno piglia un filo d’inizio. Un filo. Sembra che un esilissimo filo sia sufficiente per non perdere l’orientamento nella distrazione di questo mondo. Mi sveglio. Seguo i consunti rituali mattutini fatti di poche cose iniziando con l’impegno della Liturgia delle Ore (già questa una benedizione) per concludere con la Scrittura. Questo per me. Da come leggo, e su questa riflessione sono tornato diverse volte, Per De Luca la Bibbia è un appiglio, è la sporgenza alla quale aggrapparsi per non precipitare nel vuoto del baratro della quotidianità. Il giorno ha un suo giro, come il vento. Il giro, un cammino che si compie indipendentemente dalla mia/nostra volontà. Il giro ha sempre un inizio e una fine, altrimenti non sarebbe un giro, una sorta di cerchio, ma una migrazione. Chi fa un giro ritorna sempre a scapito dell’ineluttabile e della prigionia nella casualità.

E’ vero. Anche se spesso i versetti che si leggono sembrano lontani e muti, talvolta grigi come i reperti delle epoche remote, domandano di andare oltre, di non stancarsi mai dello sforzo perché prima o poi si aprono infrangendo il velo di Maya per rivelare tesori insospettati.  Questo modo di agire ha un suo gusto. Si fonda su un ricordo, un appuntamento che profuma di impegno schiudendo alla dimensione della possibilità. Per cogliere ciò che è possibile devo essere in una condizione qualitativamente diversa da quella ordinaria. Allora giungerò ad assaporare l’Inizio, io che sono iniziato, cominciato, e sarò finalmente in grado di penetrare in un attimo di estasi.

Posso poi pure sbandare…Dovesse accadere saprò che ho trattenuto per me un qualche cosa di prezioso. Non è per niente scontato, certo, ma quello che pesa è l’averci onestamente provato. La banalità cerca sempre di portarmi via tutto quello che può riducendomi ad un misero cencio ecco perché non bisogna cedere, ma resistere. Se so che le cose sono messe come sono, significa che la risoluzione del problema deve passare attraverso un’altra via, quella che la Scrittura mi indica da secoli.

Bella l’immagine del nocciolo d’oliva. Se sono riuscito ad assaporare il gusto della polpa, poca ma intensa nella sua fragranza, il nocciolo che trattengo in bocca mi rimanda sempre all’intero. Anche se non con le stesse proprietà, veicola un suo gusto stimolando la ruminazione, quella ruminatio praticata dentro quel santo istituto che è la Lectio divina.

Parole dure. E allora? Chissà per quale motivo mi hanno insegnato che non c’è nulla di duro nell’esperienza cristiana, che tutto è gratuito, che Gesù passa e trasforma tutto con una bacchetta magica. Sbarazzarsi di tutte le false immagini che mi hanno fatto e mi sono fatto di Dio non è per nessuna ragione così semplice. Probabilmente è perché per demolire le comodità di una credenza infantile devo rischiare giungendo alla tabula rasa dell’ateismo, quando scatta la molla del rifiuto. La fede non ha nulla della credenza. La fede la respiro nella Scrittura quando dopo l’esperienza di soffocare torno a respirare a pieni polmoni e la cosa non è per nulla indolore. Sono parole che respingono, vero. Ma non mi devo stupire. L’idea di intraprendere un lungo cammino non incoraggia mai, anzi. Lo ammetto senza retorica: la mia comodità spirituale ha bisogno di parole dure, taglienti, per ritrovare il digiuno della ricerca.

Sputare il nocciolo, dunque, assumerebbe i connotati di una rinuncia che sa già di spreco, dispersione…disattenzione.

Un ultimo pensiero. L’ulivo è un albero biblico, squisitamente evangelico. L’olio, il suo estratto attraverso la sapiente opera di spremitura, un balsamo del quale spesso dimentichiamo le virtù. Comunque, nel frantoio sono lavorati anche i noccioli.

 

 

domenica 18 settembre 2022

 

(dalla Chiesa Vecchia di Belgirate)

 

La luce incide sull’acqua il sentire

D’un cielo fermo d’azzurro. Parole

Smontano mute, fiori settembrini

Dicono l’infinito incanto.

Sono dentro il miracolo, nel fuoco                               5

Dell’umano profondo. L’evangelo

Risuona richiamandomi dal male

Dell’inquietudine estranea e distratta.

E’ il tempo del salterio, della lode

Che piana innerva di vita la carne.                               10

domenica 8 maggio 2022

Via, vie e sentieri


In Atti 9, il cristianesimo viene definito dall’autore Via. Se il messaggio di Gesù di Nazaret veniva e viene compreso come una via, è chiaro come nell’intento originario i Suoi insegnamenti indicavano, ma indicano ancora, i precisi ed irrinunciabili riferimenti per intraprendere un (il) cammino.

Mi chiedo: esistono anche altre vie? Da studioso delle religioni, e della loro storia, per correttezza scientifica devo ammettere che ne esistono altre: la via di Mosè, la via di Muhammad, la via del Buddha…dove conducono? Come conducono? Sono domande lecite, in senso spirituale e esigono rispetto, anche quando approcciate secondo la metodologia della Scienza delle Religioni (o Scienze delle Religioni)

Sulla base della mia personale esperienza, posso affermare che la via di Gesù è compiutamente marcata anche se troppi segnavia sono stati cancellati dal tempo oltre che dagli uomini stessi (vandalismo spirituale). E allora?

Occorre fare come si usa in montagna quando i sentieri vengono ritracciati e si procede alla loro pulitura. E’ una lavoraccio, una fatica, ma alla fine la via rimane di nuovo leggibile e chiunque si troverà a percorrerla non correrà il rischio di smarrirsi. Chi sono questo uomini e donne che, quasi sempre in maniera anonima e senza pretendere ricompensa alcuna, animati da quella che veniva chiamata buona volontà, si mettono al lavoro mossi dal solo desiderio di condividere una passione e dunque un amore?

Mi fermo un istante e lascio volutamente in sospeso la domanda. Pietro era stato battezzato? Forse da Giovanni, come alcuni pensano sulla base di quanto viene proclamato nel IV vangelo al capitolo 21, quando Gesù pone la triplice domanda a Simone e la introduce con l’espressione Simone di Giovanni. Gli altri? Giovanni Evangelista, Giacomo, Bartolomeo…Il battesimo sacramentale ha una sua storia, è segnato da una prassi che si incarna nel vissuto e che si consolida nell’esperienza della Chiesa. Nonostante queste verità fondanti e fondamentali, mi domando se in senso evangelico il battesimo non acquisisca anche un significato più ampio e questo seguendo sempre le parole di Gesù quando accenna al suo battesimo, quello che riceve nel mistero di Passione, morte e Risurrezione, all’immergersi battesimale nel ritmo cristico. Questi nostri tempi ci stanno conducendo a riflettere su queste problematiche, ovvero sul significato di un sacerdozio battesimale, dimensione e condizione sperimentabile da chi si pone in cammino lungo la Via tracciata da Gesù, un sacerdozio che si distingue, ma senza annullare o diminuire il sacerdozio presbiterale, e il sacramento dell’ordine al quale indegnamente appartengo.

Ecco, di quel gruppo di volontari volenterosi, quelli che vivono la vocazione di ritracciare un sentiero, possono entrare a far parte persone con storie differenti, ma che vivono la vocazione ad un sincero sacerdozio battesimale, dimensione alla quale apparteniamo anche noi ordinati e che, forse, con un minimo di umiltà, dovremmo tornare a scoprire vivendola nella sua quotidiana semplicità.

In questa scoperta si definisce la peculiarità di Gesù, ovvero nella dimensione di un sacerdozio che non esclude nessuno, ma include, perché l’agire del rendere sacro, dell’offerta, riguarda ogni momento della nostra vita ed ogni esperienza che conduce alla scoperta dell’humanum. Chiunque, in senso battesimale, può offrire doni materiali e spirituali, può sacrum facere, ed in questo si radica la cosiddetta differenza cristiana. Senza questa riscoperta il rischio è quello di rimanere fermi alla definizione dei ruoli, al ritualismo, a forme ingessate di tradizionalismo, a dogmatismi che complicano l’esercizio della misericordia, a concezioni gerarchiche e gerarchizzanti, aspetti funzionali che gravano ormai nel passato di un’esperienza anche perché il rispetto della tradizione non può rimanere identificato con questi particolari aspetti. Chi si mette al lavoro con questo spirito, si pone nella condizione di fare comunità e comunione, di condividere, di offrire senza se e senza ma, come si dice.


giovedì 5 maggio 2022

La sete d'infinito

  

La sete d’infinito mi arde in gola.

Sono spugna che brama trattenere

Tutti gli umori che all’istante evaporano.

Per Iddio sono naufrago

Sotto nubi avvelenate di morte                                     5

Ormai immemore della stella

Che annuncia il ritorno atteso.

Sono Caino o Abele? Il soffio

Dei soffi o l’artigiano che straniero

Percorre plaghe cantando rituali                                   10

Che ingravidano donne di altri padri?

La risposta è alla vita e al mondo,

Alla ruvida croce e ai chiodi,

All’onta di rimanere appeso!

sabato 12 febbraio 2022

Meditazione sulle Beatitudini. Luca 6, 17. 20-26

Beati voi poveri…Che cosa conosco della povertà?

Quello che mi è stato detto oppure insegnato a proposito. Quello che sono riuscito a vedere con i miei occhi, ma sempre fuori, troppo lontano per farne esperienza e. chissà per quale arcano, rarissime volte, se non mai, dentro di me e nelle scelte di vita che ho fatto, nei gesti che ho compiuto. Questo è il nodo da sciogliere.

Se non trovo la forza di cominciare la mia conversione da qui, dalla prima Beatitudine, non posso comprendere e vivere questa straordinaria condizione di vita.

Cosa potrebbe succederebbe se provassi a dire ad un povero affamato e senza tetto che è beato di fronte a Dio? Come reagirebbe a questa mia vuota affermazione?

L’errore commesso, grave e fuorviante, è che abbiamo spostato da noi, da me, la questione della povertà, sul prossimo in nome di una carità che altro non produce se non un intontimento della coscienza, un sentirsi a posto con sé stessi. Il problema è farsi poveri. Scegliere questa condizione così come il Vangelo me la pone sotto gli occhi, raccontandomela. Solo chi si fa povero attua il Regno di Dio, lo rende visibile e può cogliere e sfamare chi ha dei bisogni. Per capire occorre rileggere il libro degli Atti per verificare quello che viene detto a proposito delle prime comunità cristiane, il modello al quale guardare: in quelle comunità non c’erano bisognosi perché il comandamento era la condivisione. Se condivido, non mi viene tolto nulla di cui ho bisogno anzi, mi viene dato, ma così operando, non mancherà nulla a nessuno dei fratelli e sorelle accolti nella loro indigenza. Quando lasceremo questo mondo porteremo via con noi solo quello che avremo dato.

Certo, la sfida è togliere i poveri dalla povertà. Questo vuol dire lottare per una società dove al primo posto viene messo in programma il benessere materiale e spirituale del prossimo.

Questa è la chiave di volta per entrare nella dimensione del Regno e fare delle Beatitudini il fondamento della mia/nostra vita di credenti e di ricercatori della fede.

Dovrebbe essere chiaro che chi ragiona, vive, prega, celebra e testimonia secondo questo stile rischia la discriminazione, insomma il rifiuto, e da qui le lacrime, quando non la persecuzione che ai nostri tempi si attua subdolamente in maniera educata, civile, composta, ma sempre letale. In questi giorni di barbarie questo non accade purtroppo solo fuori, ma anche dentro la Chiesa stessa quando ricadiamo nell’ideologia e ci rinserriamo dietro la falsa sicurezza di -ismi di ogni genere.

‘Quando io do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista’. (Elder Pessoa Càmara)

Il mondo deve cambiare, per sopravvivere a questa crisi planetari. È il Signore che lo chiede. Mi domanda di allinearmi e concentrarmi sull’essere, di portarmi a compimento senza cedere alla mentalità dominante. Di non illudermi che l’avere, il potere e il successo mi realizzino come essere umano. Scoprire l’humanum è fare della mia vita una questione di qualità e non di quantità. Questa ricerca di consapevolezza cristiana passa nel profondo della Parola che trasforma per la salvezza opponendomi alla mondanità (Papa Francesco).

Cosa dicono i benpensanti di tutto questo? I ricchi, i potenti, quelli che fanno del profitto lo scopo di un sistema economico iniquo o del conformismo cattolico un comodo paravento?

‘Nessun regime dovrebbe temere l’opposizione cristiana la quale è l’unico modo di collaborare per un cristiano, che non può né confondersi né approvare incondizionatamente. Il cristiano costruisce e demolisce allo stesso tempo’ (Primo Mazzolari)

Dopo tutte queste parole risuona l’oi, il lamento funebre che Gesù intona per chi rimane al di fuori delle Beatitudini e vuole rimanerne. È il guai, che non significa vendetta, ma la conseguenza del vivere sordi al richiamo della Vita e della propria cristificazione.

 

 

 

 

 

  

sabato 29 gennaio 2022

Meditazione su Luca 4, 21-30

 

La scena che Luca racconta è drammatica e profetica. A Nazareth, dove risiedono i benpensanti, dove si è religiosi fino al fondamentalismo, dove la legge viene indagata perdendosi nella più recondita filigrana del legalismo, dove si filtra il moscerino per ingoiare il cammello, tutti rimangono scandalizzati dalla predica di Gesù e dalla serenità con la quale annuncia l’avvento dell’amore al posto della vendetta che avrebbe dovuto restaurare uno status ideologico, il regno degli uomini piuttosto che il Regno di Dio.

Gli occhi di tutti sono su di Lui, dopo che ha terminato la lettura della pericope tratta dal capitolo 61 di Isaia. Sono occhi che non vedono e orecchie con non odono, sono i ciechi e i sordi nella fede, i consacratori dell’inverosimile. Non resistono alla Luce della vita, al richiamo profondo che invita a comprendere chi siamo e che cosa siamo (chi tra di voi è senza peccato…) e infuriandosi tentano di uccidere Gesù, di toglierlo di mezzo perché è scomodo amare secondo il Vangelo. Meglio l’ipocrisia, meglio i sepolcri imbiancati.

Anche oggi è possibile uccidere Gesù, troppo spesso lo uccidiamo anzi: lo uccido. I benpensanti inorridiscono e altro non sanno fare che chiedere ‘ma come? Io? ma se sono sempre stato impegnato, se ho sempre pregato, e i miei buoni propositi, dove li metti?’

Questo accade quando riduciamo Gesù ad un’innocua immaginetta, al composto moralizzatore politicamente corretto. Quando lo vediamo come un bravo consolatore per le nostre miserevoli pene, egoisticamente invocato in preghiere ripetute con maniacale meccanicità e stolida quantità. Insomma: addomesticato affinché non possa nuocere, come sosteneva Adriana Zarri.

 Così, nel tumulto, viene letteralmente buttato fuori dalla sinagoga e condotto sull’orlo di un precipizio affinché giustizia venga fatta per riparare alla blasfemia. Anch’io lo butto fuori dalla mia vita quando mi dimentico della fede che dovrei custodire, trafficare e testimoniare. Così lo tengo lontano dalle mie decisioni, dalle mie relazioni, dalla quotidianità rendendola sterile e facile preda della morte abitando un mondo etsi Deus non daretur.

Questo succede perché ho paura della torma vociante, di chi urla crucifige!, dalla tassonomia da casellario giudiziario che troppo condiziona la ricerca di quella condizione che si chiama fede e vita nella misericordia.

 Cosa fa Gesù? Passa nel mezzo della folla, cammina attraverso la morte perché è già luce della risurrezione. Luca mette in relazione la sinagoga di Nazareth, dalla quale viene buttato fuori, con il Calvario, quando sarà giustiziato fuori dalle mura di Gerusalemme. Gesù è già risorto e mi indica il cammino da seguire, il tragitto lungo il quale mi affianca sorreggendomi nella debolezza della mia umanità.

 Cosa posso dedurre da tutto questo, che è sempre un nulla se messo a confronto con la fecondità del Vangelo?

Che i luoghi del sacro secondo gli uomini, sono i più pericolosi per il Figlio di Dio perché lui è il Santo. La sacralità che ci ostiniamo a voler tramandare può essere un baratro vuoto allo stesso tempo inviolabile, uno spazio organizzato e gestito con leggi dove vivere separati per non condividere e dunque una ricaduta nell’idolatria…deorum manium iura sacra sunto…Non così la santità, una condizione di vita che Gesù condivide con l’uomo, che è fatta per l’uomo, un dono del Santo dei Santi.

Se Gesù che è il Figlio dell’uomo santifica perché è santo anch’io posso santificare perché è in Lui che questo accade, perché ha assunto l’umanità e nell’umanità il mondo intero santificandolo.

sabato 22 gennaio 2022

Amen! Così sia!

Henri Le Saux

Amen! Così sia!

Questo dovrebbe essere il mio Grazie! ogni mattina, al mio risveglio.

Devo ammettere che non è per niente facile cominciare la giornata con questo ricordo. Facile è svegliarsi già preda di ansie e preoccupazioni o gonfi di euforia per banalità di ogni genere, in ogni caso prigionieri delle identificazioni e succubi dell'ego.

Ringraziare significa cominciare a prendere le distanze per non smarrire quel veramente poco di me visto e sofferto che però mi aiuta a non dimenticare chi e che cosa sono.

Ora comprendo perché Henri Le Saux apre la sua meditazione sul Padre nostro principiando dalla fine. Perché nella fine, in ogni fine quotidiana, si cela il germe dell’inizio e questi istanti sono la mia fine e il mio inizio nel Signore, nella semplice profondità del ritmo Cristico.



 

lunedì 17 gennaio 2022

Fare festa (Marco 2, 18-22)


 7 gennaio 2022 s. Antonio Abate (riflessioni sul vangelo di Marco)

Imparare a fare festa, gustare il sapore della gioia. Come arrivare a questa consapevole libertà? Certo, perché solo una persona libere riesce a godere fino all’ultimo della festa.

Fare festa significa gioire senza intontirsi nel divertimento. La questione è che tutto dipende da come so ascoltare i miei bisogni, di quanto e come sono in grado di discernere.

Si tratta sempre di un richiamo ad uno stato di veglia: questa è la presenza dello Sposo. Il problema è che potrei anche non accorgermi o dimenticarmi. Allora vuol dire che non ancora appreso cosa significa essere immersi nella condizione perenne dell’essere umano (Genesi 1-11)

 

 

 

 

 

sabato 15 gennaio 2022

Suggestioni leggendo Raimon Panikkar (15 gennaio 2022)


L’acqua battesimale deve discendere dalla testa fino al cuore.

Se non discende…

“…come capita a tanti cristiani ai quali l’acqua battesimale versata sulla testa non è arrivata fino al cuore. Si apre allora una doppia strada che ognuno deve percorrere secondo i talenti ricevuti: la ricerca intellettuale e il camino interiore. In altre parole: dobbiamo domandare alla tradizione chi sia questo Cristo e al contempo chiedere al nostro cuore che cosa possa significare. Se la prima strada non si congiunge con la seconda non giungeremo ad una vita cristiana autentica e rimarremo al più catecumeni”.

Come sono messo, dunque, di fronte a questa comprensione?

Faccio mia questa riflessione di Raimon Panikkar tratta da ‘La pienezza dell’uomo’ e non posso decidere altro che umilmente prendere atto della condizione di questo momento e, pregando,  trovare la forza per continuare il lavoro nella vigna del Signore.

 

 


 

mercoledì 12 gennaio 2022

Pescatori di uomini (spunti di meditazione)

Essere pescatori di uomini o diventarlo? Esserlo vorrebbe dire riconoscere una condizione innata, ma nel Vangelo Gesù promette “vi farò” indicando un cammino che per i discepoli accade nella storia ed è in costante divenire. Quando sostengo e sottolineo la concretezza e oggettività del Vangelo intento precisamente questo aspetto: l’esperienza della fede e dunque della sua ricerca avviene nella storia, esige un suo tempo, la scoperta e la sperimentazione di uno stile di vita (una qualità, quid) e la totale fiduciosa immersione nell’amore di Gesù di Nazareth. Questo è il senso profondo della continua incarnazione e dell’espressione vi farò.

Nelle situazioni descritte nei vangeli troviamo sempre un prima e un dopo. Vi farò perché non lo siete ancora. Per esserlo occorre giungere alla conclusione di un cammino e avere distillato la consapevolezza di una condizione certo originaria per l’uomo, ma ancora da conseguire. Non si tratta di scoprire nel profondo un potenziale umano da portare alla luce per essere utilizzato con scopi egoistici ed egotistici. Nel vi farò si manifesta il creare continuo del Signore, una condizione per la creatura straordinaria, ma ordinaria per Gesù. Con la vocazione ad essere pescatori di uomini, vengo invitato a partecipare il miracolo indescrivibile, ma pur sempre sperimentabile di portare alla vita, di donare ad un’altra persona, il mio prossimo, la possibilità di comprendere il passaggio da un prima ad un dopo, lo stesso che anch’io ho compiuto e sto ancora compiendo, il lungo cammino dalla morte alla vita.


lunedì 10 gennaio 2022

Le esigenze del Regno (provocazioni su Marco 1, 14-20)


Le esigenze del Regno e la dimensione della vocazione (provocazioni)

 

Lasciare subito. Non indugiare e mettersi in cammino come fatto da Maria e dai pastori.

Le esigenze del Regno, solo se ci si ferma ad una lettura superficiale sembrano rinviare alla fretta e, di conseguenza, al rischio di cadere nell’approssimazione e nella disattenzione. Nulla di più sbagliato.

Perché subito? Con questo avverbio di tempo che cosa mi vuole suggerire l’evangelista?

Subito, dal latino subitus, participio passato di sub-ire, andare sotto, sottostare, ma anche sopraggiungere. Come avverbio latino, d’improvviso.

Un’occasione deve essere colta (accolta) senza indugio alcuno. Non posso pensarci sopra troppo. Il rischio sarebbe quello di rimanere prigionieri di un’immaginazione non genuina.

Se l’occasione mi sollecita destandomi improvvisamente, subitus (è lo scopo delle parabole, quello di creare uno stupore forte fino al punto di provocare uno shock) devo seguire la libertà istintuale, una condizione che inviterebbe nell’immediato a fare spazio per accogliere.

Desidero andare oltre. La vocazione per il Regno immette nella dimensione dell’eterno presente dunque nella condizione di fare. Davanti a questa oggettività non esiste attaccamento che possa reggere (reti, barche, impresa, profitti, greggi, affetti, perfino pericoli, quelli ai quali si espose Maria seguendo la via alta dei monti per raggiungere la parente Elisabetta). Tutto si riassume nel sopraggiungere del nuovo e di fronte alla novità occorre maturare un’apertura feconda e genuina.

 

 

 

 

sabato 8 gennaio 2022

Sulla stupidità umana


 La stupidità umana è un male fortemente contagioso. E’ un pericolo che tende a non risparmiare nessuno, per questo è paragonabile alla morte che balla con tutti come si legge nelle antiche rappresentazioni della Danza Macabra.

Quando si cade vittima di questa autentica patologia è quasi impossibile rendersene conto perché spesso è asintomatica.

Malati di stupidità siamo in grado di fare del male a noi stessi e al prossimo con una facilità disarmante oltre che procurare disastri d’ogni genere.

La cura?

Una dura opera di discernimento spirituale per scoprire quali sono i miei bisogni. Un lungo lavoro interiore per giungere alla condizione di veglia. La faticosa ricerca di attenzione e consapevolezza per combattere aspramente contro l’approssimazione e la superficialità.

Quella della stupidità e la condizione perenne dell’essere umano. Se i protoplasti avessero dato ascolto, se Caino avesse fatto altrettanto nella notte del suo delirio omicida, se, se, se…

Quanto realmente pesa è hic et nunc, che comprenda che le cose sono come sono affinché lo shock di una passeggera presa d’atto mi possa fornire lo stimolo per lasciarmi mettere in crisi e cominciare a non dare più nulla per scontato.

venerdì 7 gennaio 2022

Epifania 2022 (Meditazione sul vangelo secondo Matteo)


 

 

La questione che sollecita in questi nostri giorni non è tanto quella di saper rendere ragione della propria fede per trasmetterla usando i registri maggiormente adeguati. Il problema è vivere come testimoni di Gesù di Nazareth Figlio di Dio, il Risorto.

La testimonianza non avviene quasi mai nel fragore delle dispute, dentro gli agoni dei salotti buoni, ma nel silenzio della quotidianità dove quanto ha peso qualitativo è l’esserci e non l’apparire. Solo vivendo secondo questo stile si diffonde il contagio buono del Vangelo.