Non riconosco più il mondo. Non mi sento
annebbiato, no. Non ho pranzato innaffiando le portate con vino in eccesso.
Ammetto di concedermi qualche bicchiere talvolta indugiando anche se non cado
mai nell'ebbrezza. La moderazione avviene come se avessi un limite naturale che
scatta, una barriera che si alza per
evitarmi cadute nell’abbruttimento che solo l’uso smodato di alcol provoca.
Ferma!
Questo non centra niente con quanto stavo scrivendo. Il mondo non lo riconosco
più veramente anzi, lo rifiuto intromettendo della violenza verbale estrema tra
il sé che vorrei preservare dal contagio e quanto considero estraneo ad ogni
mia personale volontà. Mi stupisce la violenza che mi provoca l’esteriore come
l’interiore perché, anche se a molti benpensanti non piace, il mondo ci pervade
dentro, dove prende forma, e fuori. La ribellione è forte fino al punto che
arriverei a fare a pezzi chiunque mi si trovasse davanti nei momenti topici.
Poi
tutto scivola nella pace dell’abbandono laddove stempera ogni ebbrezza per
lasciare che tutto si chiarisca mentre l’orizzonte torna sereno. Tutto accade
come nel rapimento della bella stagione per giungere a comprendere che ogni
albero degno di questo nome produrrà frutti secondo il tempo prestabilito.
Il
mondo torno a riconoscerlo per quello che è attraverso tutto quello che accade.
Capisco che il problema non è di rifiutare più o meno una situazione, ma cercare
di osservare la giusta distanza, quella che varia a secondo delle condizioni e
dunque delle cose che avvengono.
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