Queste mie considerazioni inattuali cominciano con l’andare alla radice dell’etimo, anche se qualcuno suggerisce di non indulgere troppo in questa pratica linguistica. In-signare. Sempre dal latino. In, dentro, su. Signare, segnare, imprimere, fissare, da signum, marchio, sigillo, segno. La definizione che si deduce dal greco eg-charréssein è ancora più diretta e significa incavare, imprimere.
Il nostro verbo, nella sua accezione greca, assume toni materiali richiamando direttamente ad un’attività di carattere artigianale, per questo il rinvio al concetto di poiéin non rimane per niente fuori luogo. Spostarsi sul versante del fare, a questo punto, non si presenta per niente come un azzardo semantico e va trattato con estrema attenzione.
I miei alunni, discenti se voglio mantenere aulica la discussione, secondo questo punto di vista sono il materiale umano sul quale lavorare con perizia artigianale seguendo i dettami del fare senza strafare. Una materia prima, grezza quanto si vuole, ma sempre un elemento originario, meglio, originato, segnato ancora da una certa purezza e duttilità.
Su una materia di questo genere, spesso non una tabula rasa come alcuni pensano, ma al contrario carica di un certo innatismo e di un vissuto, occorre agire con estrema cautela soprattutto oggi quando tra le giovani generazioni ed il mondo degli adulti sembra essere stato sollevato un ulteriore velo di Maya. L’incomunicabilità è imperante e non servono a nulla le appendici tecnologiche dietro le quali ci nascondiamo nel vano tentativo di azzerare la distanza che ci separa da loro. La questione ruota attorno al fatto che mi dimentico appena abilitato all’insegnamento che fino a qualche tempo prima anch’io sono stato dietro ad un banco e ho dovuto sostenere una serie di prove prima di essere giudicato idoneo allo svolgimento di una funzione assumendo un ruolo che ai nostri giorni in troppi non riconoscono preferendo rivestire parti che non competono in un determinato contesto.
Insegnare è un problema di relazione. Il lavoro, un segnare nell’altro un qualcosa che dovrebbe permanere nel tempo. Se non sono stato a mia volta insegnato e non ho avuto la ventura di incontrare dei maestri, cosa mai potrò insegnare a mia volta?
Insegnare significa porre un segno, fornire delle indicazioni, tracciare una mappa, ma se non ho prima sperimentato il percorso che tento di illustrare, non so quando come e dove vanno posti i segni. I segnavia che tracciano i sentieri in montagna sono un esempio eloquente: devo conoscerli se arrivo a propormi come guida. Inoltre, insegnare produce un solco profondo, una sorta di cicatrice culturale che se sbagliata nel suo posizionamento deturpa anziché individuare.
Per il sottoscritto, l’azione dell’insegnare, o il gesto in alcuni casi, passa attraverso la mia incapacità di farlo rimanendo filtrato dall'osservazione della mia impotenza. Se mi comprendo come inadeguato e, perché no, impotente davanti ad una classe in tumulto, dalla mia condizione posso azzardare la visione di avere di fronte degli esseri umani in potenza, grossolani, ma al mio stesso modo inadeguati. Il problema è che l’accellerazionismo cibernetico ha ormai compiuto il suo nefasto progetto disumanizzante.
E noi come rispondiamo? Introducendo nella scuola lo spettro del marketing, perché si deve produrre, ma non fare, del managerismo galoppante per essere competitivi a colpi di progetti, open day, viaggi d’istruzione, classi senza aula e tra non poco scuole senza aule. In tutto questo delirare l’aspetto umano viene meno facendo scivolare i ragazzi in una massa informe e disinteressata e la schiera degli insegnati in una nebulosa di posizioni che vanno dalla stanchezza deprimente all’ideologismo rampante, ma tutto sempre appesantito dall'inconsapevolezza della gravità del momento.
Un bel post, che fa riflettere. Buona serata.
RispondiEliminasinforosa