Chissà per quale arcana
ragione nell’immaginario collettivo il poeta viene sempre visto come una
persona totalmente fuori dagli schemi del conformismo sociale. Spesso li si
considera dei buoni, visto che il loro strambo lavoro li conduce a trafficare
con le passioni, i sentimenti, le emozioni al punto che, anche quando scendono
nei recessi del profondo per scoprire le più turpi perversioni, tutto viene
risolto nell’ovatta del sogno, come se sognare fosse un passatempo occasionale
e non una dimensione che la nostra mente abita a tutti gli effetti.
“Ma
dai! E’ un poeta”, si sente dire e poi via che scatta il
solito risolino spesso accompagnato da espressioni di compatimento come se
tutto il lavorio poetico, che non esclude il cammino nella sofferenza, altro non
sia che una perdita di tempo. E anche quando il poeta scade nell’eccesso e
transita per la sua stagione all’inferno, il trattamento rimane analogo: “Ma è un poeta! Cosa ci dovremmo
aspettare da un perdigiorno. Poveraccio! Nessuno gli ha mai detto che la poesia
fa male?” Così, il passo che separa la bontà dalla stupidità o dall’abisso
della demenza, si restringe terribilmente al punto che ogni caduta rimane
inevitabile. La bontà assume le tinte della follia, della possessione,
dell’eccesso per arrivare a scoprire che l’esser buoni, in questo mondo, viene
visto come il marchio della diversità, il sigillo dell’emarginazione.
Ebbene, in barba al pensiero comune, il sottoscritto non
si sente per nessuna ragione buono. I poeti non sanno essere buoni e soprattutto
non devono esserlo con questo mondo. La bontà non è di casa nelle nostre
contrade. Basta osservarsi attorno senza troppe cerimonie. Talvolta, proprio
per sfuggire alla catastrofe del quotidiano, il poeta si ritrova ad essere un
abilissimo fingitore, come Pessoa, perché non ragiona con il cervello ma
con l’immaginazione e attraverso questo filtro scorge l’assurdo del girare in
tondo al quale ogni destino umano sembra essere condannato. Nel pensiero comune
uno che scopre l’inganno e te lo sbatte sul grugno non potrà mai essere
considerato un buono. Il buono, sempre nel pensiero comune, è quello che ti da
la pacca sulla spalla, che ti ascolta contrito, che si comporta come il cordialone
di turno, che paga il conto al bar…
E se il fingere fosse una copertura? Insomma: visto che
quando scopri il funzionamento della macchina rischi che i ben pensanti ti
facciano subito la pelle perché potrai fare tutto, anche della poesia, ma non
avvertire che l’inganno è montato nel meccanismo e che per buona pace di una logica
che assume svariate caratteristiche, nessuno deve andare a scomporre, cosa gli
rimane da fare?
L’unica possibilità è il cammino dentro, quello che ti
implica la rinuncia e il distacco proprio per evitare di rimanere impigliati
nelle maglie del sistema. Ecco, allora, la vera questione: il poeta deve essere
assolutamente libero. Un verso riuscito è un granello di libertà conquistata.
Allora, dopo le dovute comprensioni, un uomo libero, un poeta, si scoprirà buono
perché tollerante nei confronti dell’altrui libertà, anche quella di rimanere
impigliati nelle reti dell’uccellatore.
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