Umberto Eco e il giornalismo disonesto.
Questo mi sembra di rilevare dopo aver terminato la lettura di “Numero zero”. Confesso che mi ero fatto
delle aspettative, come per ogni uscita tanto attesa da parte di una grande
firma.
Il romanzo è scorrevole, asciutto,
spesso scheletrico quando non approssimativo (qualche ripetizione, lunghe
elencazione erudite, abili combinazioni di dati e curiosità). E’ vero che il
nostro illustre autore ci ha abituati a ben altro, ma la sua ultima fatica,
tutto sommato, si legge e anche in una manciata di ore. Certo, la vicenda è quasi
inesistente, fluttuante in’approssimazione che appare quasi voluta. Tutto si
svolge tra le quattro grigie mura di una sedicente redazione di un quotidiano
che mai uscirà ma che risulterà utile alla realizzazione di maneggi e trame
politiche, facili avanzamenti di posizione e carriera sulle spalle e ai danni
dei soliti noti. I personaggi risultano scontati quando non un cliché ricorrente nella letteratura di
consumo. Tranne qualche scena ambientata nei centralissimi bassifondi della
Milano da bere (una via Bagnera che non starebbe male a White Chapel o nei
sotterranei di Edimburgo), una visita nella scabrosa chiesa di san Bernardino
alle Ossa e con l’ovvio richiamo alle terribili catacombe dei Cappuccini di
Roma e Palermo, la narrazione mantiene una scialba unitù d’ambientazione. Della
contorta e ‘italiana’ vicenda di
Tangentopoli si tratta ben poco per lasciare spazio alla ripresa di teorie
complottistiche ormai trite che vanno dalla morte di Mussolini o del suo sosia,
alla strage di Piazza Fontana, Gladio, i tentati golpe, i servizi deviati, la
solita onnipresente ombra della Cia con la sua longa manus. Un centone di ovvietà, come qualcuno ha sottolineato
anche se, per andare oltre le critiche superficiali, quanto si legge, tra le
righe di un romanzo probabilmente costruito ad arte con queste caratteristiche
fuorvianti, emerge una sottile ma profonda critica al giornalismo dei nostri
tempi. Se così fosse, ancora una volta Eco si dimostra un autentico maestro
della scrittura, un autore capace di stupire anche quando dalla solita schiera
di lettori onnivori viene condannato per sciatteria.
Credo non sia un caso che, nonostante i
programmi editoriali, “Numero zero” sia
uscito proprio immediatamente dopo l’attentato alla redazione parigina di Charlie Hebdo e successivamente la marea
di libertarismo che il terribile atto terroristico ha smosso come uno tsunami
mediatico. I social media ci hanno letteralmente sepolti con ogni possibile
notizia, aggiornamento, reportage, dibattiti…nefandezze di ogni genere e
specie, pubbliche e private, deliri privati e collettivi. Tutti sono stati
Charlie Hebdo, per qualche frazione di secondo, e tutti, oggi sono altro,
seguendo la ruota della casualità quotidiana. Le maggiori testate nazionali
hanno scritto e pubblicato di tutto e di più sbandierando il vessillo della
libertà di stampa. Ecco la questione e il collegamento con l’idea di fondo che,
come ho sopra affermato, sostiene l’ultimo romanzo di Eco tenendo conto del
fatto che i folli assassini di Parigi
mai avrebbero potuto sapere dell’uscita di “Numero zero” e magari poco della pubblicazione di quello del loro connazionale
Huellebecq. Insomma, sotto le spoglie di un romanzo apparentemente scialbo,
serpeggia la messa alla berlina della compromissione giornalistica italiana, di
un asservimento che sembra non conoscere limiti e confini morali.
Perché non ammettere che nel bel paese non esiste libertà di stampa e
che l’esercizio dell’onestà dell’informazione
non può essere costruita se non sul fondamento della verità. Che le maggiori
testate giornalistiche siano clienti del potere anche un bambino lo riesce a
capire almeno fino a quando non gli metteremo in mano uno smartphone per meglio spappolargli il cervello. Un regime necessita
sempre di una compiacente prezzolata stampa di potere. Malgrado le belle facce
dei direttori di quotidiani che sfilano impomatati sugli schermi televisivi per
azzuffarsi col mondo intero, siamo lontani dalla libertà che permette, presso altri
lidi, il prolificare di un giornalismo d’inchiesta che non risparmia a nessuno
le dovute fondate critiche senza rischiare ostracismi e linciaggi quando non il
piombo di qualche folle assoldato ad arte.
Nella redazione di Domani lavorano troppo poche persone e tutte provengono da
esperienze disparate spesso macchiate dal peso del fallimento. L’atmosfera è
dimessa anche se sul grigiore della normalità campeggia la figura del direttore
Simei, un abile trafficone, una vecchia faina con intrallazzi di ogni genere
alle spalle a sua volta servilmente sottoposto all’editore, il commendator
Vimercate, una presenza aleggiante nell’etere. Evito facili paralleli e rimandi
alla storia così come alla cronaca. Quello che conta è l’espediente. Il giornale
non uscirà mai, ma servirò come trampolino di lancio per l’intraprendente ‘padrone’ affinché forzando alcune
situazioni e manomettendo determinati equilibri possa venire ammesso nel
salotto buono di chi conta e muove i fili della situazione. Ho poca esperienza
di giornalismo e la mia conoscenza con l’editoria si limita ad una parentesi
della mia vita da studente universitario quando lavorai come critico letterario
e d’arte presso un bisettimanale d’informazione della mia città, ma fu
sufficiente per capire come anche nel piccolo quelli che contavano erano e sono
i rapporti clientelari, l’essere introdotti, avere in tasca le giuste tessere
di partito. Il comandamento principale era quello di compiacere, incensare,
servire biecamente coloro che avrebbero potuto un domani debitamente
ricambiare. In una condizione come quella che vissi era pressoché impossibile
fare carriera, sperare di venire assunti in redazione, vedere riconosciuta la
propria professionalità con la conseguente iscrizione all’albo dei pubblicisti
ambita come un miraggio irraggiungibile.
Compresi che la notizia non doveva per forza e sempre coincidere con la verità
e che della famose regola della ‘quattro W’
non fregava pressoché niente per nessuno. Basti per comprendere che, in barba
alle aspettative di noi giovani praticanti, un bel giorno venne assunta come
redattrice una signora che fino al giorno prima aveva fatto la casalinga, ma
che era moglie di un noto piccolo imprenditore nonché ormai attempato rampante.
Per arrivare al dunque. Sono convinto, e
questo mettendo da parte ogni pretesa critica e di lettura narratologica, che
Eco sia riuscito assai bene nel suo intento. L’operazione che ha condotto, l’ha
architettata con estrema finezza evitando facili allusioni, nomi, rimandi
diretti, colpi bassi, frecciate velenose. La scelta temporale di retrodatare la
trama è interessante visto che dallo scempio di Tangentopoli ben poco è
cambiato quando non peggiorato. A cosa è ridotta l’editoria italiana, e non
solo quella giornalistica, è risaputo. Tutto dipende dalle logiche di mercato,
l’imperativo è quello di stare a galla a qualsiasi prezzo per questo non
stupisce il pattume che viene pubblicato e le lobbies di ogni genere che
vengono soddisfatte. Il risultato è ovvio, per pochi purtroppo. Il livello di
sottocultura è spaventoso e ancora più spaventoso il nulla che viene impiegato
per riempire questa immane voragine. Il danno è che sono sempre troppi coloro
che rimangono triturati da questo immane tritacarne di legittime umane
aspettative. Colpiti d’accordo! Ma affondati?
P.S. Non dimentichiamo che Eco è un uomo di profonda cultura, potente quanto
basta per rimanere protetto entro l’empireo di quegli intellettuali ritenuti intoccabili perché danno lustro al
grigiore di un sistema bieco e
ignorante.