sabato 11 maggio 2013

Quando non ci sei



Sei a casa tranquillo dopo la mattinata di scuola, dove ti hanno frastornato in ogni modo. Inutile spendere filippiche sulle classi che peggiorano di anno in anno: è una realtà che denota una lenta inesorabile destrutturazione sociale. La cosa che ci preoccupa, prima ancora dei disastri didattici, è il fatto che un domani ormai prossimo, saremo in mano a queste generazioni. Non si può generalizzare, certo. Qualche anima pia ancora la si ritrova nella suburra urlante che ogni giorno affronta la giornata scolastica. Mosche bianche. Agnelli tra i lupi…L’importante è riuscire ad educarli alla giusto candore combinato con una sufficiente scaltrezza per evitare i danni che il mondo di fuori arreca senza troppe cerimonie.
Basta con la scuola della quale sempre scrivo per deformazione professionale. La questione è un’altra e di ben differente spessore. Sei in casa. Mi sono fermato qui.
 Fuori maggio sbuffa i primi caldi, quelli che ti mettono fuori fase. Poltrona. Lettura di una rivista specialistica dedicata a sette e nuovi movimenti religiosi. La testa duole lievemente a causa dell’allergia che mi tormenta. Sento i vapori di uno stato di intontimento strano. Cedo, non so perché. Così, dopo aver letto un  articolo mi si picchia nella zucca che devo andare a prendere mia moglie che termina le sue lezioni alle 16 e 30. Parto come un treno. Con un caldo da forno arrivo a Trecate, posteggio e aspetto. Mia moglie non arriva. Il sudore mi imperla la fronte. Passa un quarto d’ora e la processione di bambini e genitori sgocciola. Provo a spiegarmi il perché del ritardo. Uno qualsiasi: una chiamata in segreteria, qualche mamma particolarmente ostica che ti blinda con le sue solite menate. Mezz’ora. Niente. Ormai sudo copiosamente. Mi sento avvolto in un’atmosfera densa e surreale. Poi l’illuminazione! Mia moglie terminerà alle 18 e 30 perché ha il famigerato interclasse. Ecco cosa accade quando non ci sei. Rivolto a me, naturalmente, fermo come un bamba ad aspettare chi uscirà dopo due ore. E pensare che ce lo siamo vicendevolmente ricordato.
         Quando non ci sei…No! Non si tratta del solito refrain che diventerà il tormentone dell’estate alle porte. “Quando non ci sei” in senso puramente esistenziale, una condizione che si può cogliere con un minimo di esercizio e non altrettanto facilmente mutare.
         Quella condizione che ti fa compiere azioni assurde per le quali non riesci a spiegarti le motivazioni, se ne esistono.
         Un momento! Il sottoscritto ha ricevuto una formazione filosofica solida. Perché, allora, scrivo che non si trovano motivazioni per l’agire nella totale inconsapevolezza, dato che di questo si parla. Semplificando. Perché ammetto che, alla fine dei conti, per tutto non si può avere una spiegazione plausibile se non provabile? Tanto varrebbe dire di avere incontrato un tritone o sirenide, al posto della sua femmina sempre ambita e sognata.
         Tutto non si può spiegare. Un bel dilemma anche se si ricorre alla discesa negli inferi dell’inconscio, per assistere all’eterna lotta tra es ed ego fino a quando non si intromette quel super che pretende sempre di avere l’ultima parola e di fare il controllore.
         Il problema è molto più semplice di quanto vorrebbe farci intravedere la nostra mente, spesso responsabile di ogni deragliare verso le paludi del non esserci. E poi, cosa dire di qualche possibile agente esterno che come compito ha quello di rovesciare ogni volta la scacchiera quando ti stai illudendo di poter vincere la partita con qualche azzardata mossa. Lasciamo da parte ogni puzzo di zolfo, ripensando al protomedico Tadino, il quale disse che il diavolo è troppo sottile e che ogni sua denunciata presenza non è null’altro che la risultante della nostra stupida voglia di vederlo all’opera. Forse aveva proprio ragione, ma così tornerei a smarrirmi nei fumi dell’inconscio e lì i mostri non si risparmiano, acquattati nelle selve interiori.
         Mi sono dimenticato dell’appello alla semplificazione! Quando non ci sei basta un bottone strappato alla giacca per finire a Bagg a sonà l’òrghen! M’è successo questa mattina alla prima ora. Togliendo la tracolla dalla spalla, la cinghia s’è portata dietro il bottone della spallina. Subito ho pensato alla figura da sfigato. L’amor proprio ferito che si spande per un bottone. Poi l’immaginazione sullo scorno che s’assomma a tutti gli scorni degli ultimi giorni. Due più due che non fa sempre quattro e quel ribollire dentro che t’annebbia portandoti via il poco rimasto dopo una notte difficile. Quanto basta per sclerare, direbbe il solito perfezionista che pretende d’essere impeccabile anche dopo una giornata di miniera.
         Ferma un po’! In fondo mi s’è staccato un bottone. Meno ancora di un piatto di lenticchie. La miseria conclamata, si dovrebbe ammettere. Un bottone si riattacca con ago e filo. Bastano cinque minuti di pazienza e la spallina torna come nuova. Ma la mia vita, quando non ci sono? In quale putrido recesso la vado a gettare?
         Una bella pedalata fino a Baggio per provare! Questo mi rimane…quando non ci sono.
        
         

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