mercoledì 11 dicembre 2013

Le meteore 2

Tutto comincia con un libro. Ancora?
            Mi fermo un attimo. L’espediente del manoscritto è letterariamente consunto! Non quello del libro. Un’entità fisica, forse meno instabile di un manoscritto o di un file. Una presenza muta, quando lasciata a riposare su uno scaffale della libreria affinché il tempo gli si posi addosso sotto forma di polvere. Una oggetto da tenere tra le mani, da sfogliare, stropicciare, gualcire, sottolineare, strappare…un oggetto che muta col passare del tempo con quelle sue pagine che ingialliscono e si macchiano, che s’imbevono d’umidità, che le tarme forano scavando intrecci di gallerie talvolta migliori, nella loro complessità, degli intrecci narrativi che la sapienza dell’autore è stata in grado di andare ad intessere.
            Prendo in mano un libro. Un libro che per giorni e giorni ho cercato nella mia biblioteca. Un libro che ho letto più di vent’anni fa, ma del quale rammento ampi sprazzi sotto forma di suggestioni, nella parvenza di emozioni impresse sulla carta. Un libro che ha segnato il mio immaginario.

            Un libro che ne tirò altri dello stesso scrittore, capita, un po’ come con i dolci proibiti o i bicchieri di buon vino, le amorose avventure.

martedì 10 dicembre 2013

Meteore 1

Talvolta rimangono delle cose in sospeso, nella nostra vita. Cose aggrappate. Spettri deformi. Sono momenti? Attimi? Sono situazioni irrisolte? Condizioni incomprese, involontariamente subite? Sono parole che avremmo voluto dire a qualcuno, ma che chissà a causa di quali preconcetti o pregiudizi non siamo stati capaci di comunicare?
Il rischio che si corre è quello di lasciare in sospeso una vita intera, di aggrapparla a troppi a vuoti senza senso alcuno…Di smarrirla in una dimensione dove l’assurdo impera assieme al caso.
Il caso! Quante speculazioni attorno ad esso, quanta confusione fatta con causa. Causa prima, causa incausata, ingenerata, causa immobile che muove tutte le cause, Amor che move…principio casuale, poi, quello che purtroppo marchia e costringe la nostra vita, la vita di molti, di troppi. A meno che…

mercoledì 16 ottobre 2013

Animula vagula blandula


Brucio fuoco!
Nulla ho scritto
che vorrei salvare
stanco che sono
delle vanità
che inseguo.

Si placa la pugna,
come un tempo
detto d’amore,
cieco  cantore,
il vento s’alza
lontano sibila.

Urlo per nulla
se musica appare
il folle ritorno
dell’anima amante.
Taccio del resto

per  questo sopire.

lunedì 14 ottobre 2013

Intus legere

Intus legere

dentro, se non dolore, rabbia,
di quella buona, da sfogare
quando vorresti cazzottare
il primo nel quale inciampi

poi ricordi quello che sei,
mastichi il bolo amaro
scaglie vetrose che sputi
con fibre dure fintanto

che le nubi sciamano
e tutto passa, così dico
scemo che sono, ormai
l’occasione è trascorsa.


domenica 6 ottobre 2013

Il bandolo della matassa (ebook)

Mi sono deciso, dopo mesi di continui ripensamenti e così mi sono detto: perché non provare la strada dell'autopubblicazione?
Ho detto basta alle solite lusinghe degli editori a pagamento e ho provato. Vedremo...


Questo il libro...Un ebook, dimenticavo. Questo il link (Il bandolo della matassa)  al quale poterlo trovare (il prezzo e modicissimo!!!).
Mi faccio pubblicità? Certo, ma accetto anche le critiche...Per migliorare, s'intende.

giovedì 27 giugno 2013

Impressioni a Varigotti

La spiaggia dal  molo - foto Massimo Caccia

Chissà perché, ma uscendo dall’autostrada, mentre scendi i tornanti in direzione Spotorno (dove incontri il bivio che conduce a Tosse), mi viene in mente Camillo Sbarbaro e la sua collezione di licheni.
         Penso alla poesia come alla risacca del mare e io, rude uomo di montagna, così mi godo le onde che squassano la battigia, naufrago di una dimensione che non sento più mia.
         La Liguria è una scoperta, lenta come la crescita dell’ulivo e devo proprio ammettere che sono questi i momenti quando vorrei cambiare vita dandomi tutto alla letteratura per scoprire che non posso (almeno così credo e me lo racconto).
         Questa mattina, col sole arrabbiato, una ripida ascesa fino a punta Crena. Il folto dell’uliveto, i profumi intensi ai quali il piccolo mondo delle consuetudini ti disabitua perché prevale il piombo dell’inquinamento (o i pestiferi fumi di san Martino), rompono sul tedio suggerito dalle anguste coordinate dentro le quali la quotidianità imprigiona. Questo vuol dire esistere, perché le sensazioni forti ti sganciano dalla realtà relativa per aprire nello Spirito.
         Una volta in alto, la luce esplode nell’incanto del panorama. Mi commuovo ancora e questo va bene quando mi rammenta che non sono scaduto nella barbarie.
         La visione è un infinito abbraccio. Spingo lo sguardo fino a capo Mele, oltre la baia di Alassio. La torre d’avvistamento alle spalle. Davanti l’azzurro intenso del mare, sotto, infranto contro gli scogli. Poi la spiaggia col molo di Varigotti. Le case coi tetti moreschi. Le colline alle spalle e la neve sulle cime oltre l’entroterra di Albenga verso Garessio e il Piemonte (sempre casa, anche se la mia dimora si situa sul confine, sempre).

         Per uno che non ama il mare, questo è già tanto, quando riesco a lasciarmi andare. La vita scorre, d’accordo, ma è in questi momenti che riesci a fermarla quanto basta per assaporarne la discreta bellezza.





Tutte le foto sono di mia proprietà - Massimo Caccia

domenica 26 maggio 2013

Piccola fenomenologia di Montalbano

Immagine dal web
         Mi sono scaricato praticamente tutti gli episodi di Montalbano, ma chissà perché, quando tento di vederne uno, non arrivo mai alla fine senza cadere in un sonno profondo.
         Cosciente dell’azione piratesca, mi beo di possedere pressoché tutto quanto prodotto per la televisione da riguardare quando non ne posso fare a meno.
         Perché Montalbano? Chiede mio figlio notando con quanto zelo ricerco gli episodi che mancano.
         Non so…Mi piace!
         Solo per questo?
         Non basta?
         Vorresti essere come lui?
         In che senso?
         Bello e pelato! Sai che spaccano quelli col cranio rasato?
         Ma cosa dici?
         Hanno il pisello grosso!
         Lo caccio stanco delle sue sparate, domandandomi come mai a diciotto anni compiuti non riesce a mettere un pizzico di sale in quella zucca bacata. E’ bravo, a scuola, d’accordo. In troppi me lo fanno notare. Studia, a differenza dello stuolo di fancazzisti che c’ha attorno, ma in casa…Con la sorella è sempre una lotta a coltello. Con noi genitori quando va bene, una questione dietro l’altra fino. Quando va male, liti durante le quali se ne esce con una filippica di bestemmie da fare paura. Forse in quei momenti vorrei essere Montalbano e rifilargli due cartoni per farlo tacere.
         Già, perché Montalbano? La sua domanda non è poi così fuori luogo. Qualche romanzo me lo sono letto anche se ho dovuto non poco litigare con la lingua di Camilleri. La fiction è diversa. Oltre a sentire vedi e le idee che ti sono rimaste ingarbugliate, si chiariscono tra in colori della bella Sicilia.
         Comunque, non so quale arcano mi lega a questo personaggio. Saranno i modi rudi e sbrigativi, il fascino degli incontri femminili che fa, l’esotismo…Bella questa! Da amante strenuo della mitteleuropa quale sono, mi rendo conto di vivere una contraddizione da non ridere. Austria felix…Sicilia? Devo ammettere che dopo aver letto Tomasi di Lampedusa, mi sono trovato davanti ad un autore europeo, malgrado l’isolamento che lo scrittore visse pressoché per tutta la vita. La dimensione umana e intellettuale spesso trascende gli angusti limiti del mondo che ci siamo costruiti attorno. Ero ancora al liceo, quando incontrai “Il gattopardo”: ormai è storia patria.
         Forse il motivo rimane dettato dall’attrazione per quanto radicalmente diverso. Sarà, ma non mi convince. In Sicilia fa caldo anche d’inverno, per i miei parametri meteorologici. Vogliamo mettere con le Alpi? Dai! E poi il cibo…Un attimo! Proprio settimana scorsa mi sono comprato una scatoletta di alici alla siciliana per emulare Montalbano e la sua passione per il pesce cucinato in tutti i modi.
         Questa è roba da uomini? chiede mio figlio, mentre ceniamo.
         E’ da due giorni che fa il filo alle tue alici, dice mia moglie.
         Allora? Rimbrotto seccato dalla scoperta.
         Apritele e mangiatele, conclude lei con tono pontificale. Facile. Non lo so spiegare, ma di certi cibi sono geloso oltre che goloso. Potrei capire si fosse trattato di una porzione pregiata di bettelmatt o un introvabile tocchetto di pian du stich, o magari qualche pecorino particolarmente raro, quelle chicche che ti vende solo Moroni a Novara…No! Una confezione di alici alla siciliana con erbette tritate e gonfie d’olio extravergine acquistate al supermercato con invereconda facezia. Il meglio, per un montanaro impenitente che ama i salumi tosti, la polenta alla vigezzina (quella con uovo e pancetta), i vini corposi come il Prunet. Montalbano si cala bicchieri di Corvo bianco. Quando lo fa, sento la saliva schiumarmi in bocca. Qualche giorno me ne comprerò una bottiglia per vedere che effetto provoca tracannarselo freddo di frigo. Il guaio è che mia moglie non beve quasi più niente e fuori dal terrazzo di casa mia non risacca il mare nella notte.
         In fine apro la scatoletta e mi degusto il contenuto con mio figlio. Una goduria, non ai livelli di una buona bagna càuda, ma di tutto rispetto. Piccanti quanto basta. Sapide.
         Ecco quello che succede quando cedi alla tentazione di lasciarti prendere troppo da un fortunato personaggio televisivo. L’emulazione è sempre in agguato alla mia porta.
         Allora, papà…perché proprio Montalbano? E’ tornato a chiedere mio figlio con la sua insistenza tardo adolescenziale.
         Lo guardo togliendo gli occhi dallo schermo dove mi sto sparando uno dei tanti episodi scaricati. Devo rispondere per forza? Chiedo a me stesso.
         Non lo so! Dico poco convinto dell’allocuzione scelta.

         Vedo che ti piace davvero!

lunedì 20 maggio 2013

Public Breakfast

immagine dal web


         Che tristezza, mi dico, fare la colazione all’Ipercoop!
         Non amo andare al supermercato, figuriamoci alla domenica mattina e per di più di corsa, perché a casa qualcuno ti aspetta per la colazione e ti sei accorto che manca il the, quello che piace, nero e di commercio equo. Poi c’è la carta igienica finita malgrado i mille e più strappi conclamati dalle becere réclame, quelle che ti bombardano e ci mettono pure Dante con la sua Commedia. E da non dimenticare il cibo per il “bastardo” che, malgrado la piccola taglia, mangia con la voracità di un piragna senza nessun senso di sazietà. Divora di tutto e non solo le briciole che cadono dalla tavola.
         La consegna mi tocca. Nemmeno le 9 e sono già al posteggio, relativamente pieno. Il sole è caldo, dopo le giornate fredde di pioggia, l’aria vaporosa. Troppa luce, per questo guardo alle montagne per vedere se già un nuovo fronte di maltempo minaccia la giornata di festa.
         Chiudo la macchina. Entro e zac! La fila davanti alla cassa del bar. Il rumore è quello tipico del mattino: tazzine, cucchiaini, posate, sorseggi e mandibole sganascianti krapfen è dolciumi che intonano la cacofonia della colazione.  Tutti belli che pronti se non già intenti al rito mattutino, armati di carrello per fiondarsi, col sapore dell’espresso in bocca, a fare le doverose compere settimanali tra isole dei freschi, corsie degli scatolami e pesce decongelato che ancora dovrebbe odorare di mare e paranze.
         Sfuggo, perché ho voglia di metterci il minor tempo possibile. Già il notare che una sola delle 15 casse è aperta e l’attesa si potrebbe presentare pruriginosa, mi mette in allarme.
         Entro. Cerco e prendo quanto mi serve senza troppe cerimonie per guadagnare il prima possibile la via dell’uscita. Mentre giro come  una scheggia per i reparti con la coda dell’occhio, m’accorgo che una seconda cassa apre. Dunque, più veloce della luce ad arraffare il the e via al pagamento.
         Nemmeno dieci minuti! Penso. Ripasso davanti al bar. Colazione pubblica, sotto gli occhi dell’universo mondo che transita consegnandosi alle fauci del commercio. Questi sono i nuovi templi. Le chiese secolarizzate del consumo, malgrado la crisi che monta e il mare magnum della disperazione postmoderna, l’opportunità di beneficiare sempre dell’acquisto con orari d’apertura sempre più dilatati.
         La colazione al bar…Non l’ho mai fatta. Mi mette tristezza pensare di bermi un cappuccio nell’anonimato, su freddi tavolini. Passi per quelle che consumi negli alberghi, dove la ricchezza del buffet consola e spesso i camerieri ti coccolano per convenzione. Ricordo le colazioni che consumammo a Mondaye, quando sostammo ospiti dell’Abbazia di san Norberto. Il grande salone secentesco con l’enorme camino di pietra. Il caffè bollente, lungo, ma buono. Le baguettes croccanti di forno, tiepide col burro da spalmare e quel clima atlantico, gelido pure a giugno.
         Piuttosto che il bar, la cucina di casa. L’acqua messa a scaldare. Il profumo del caffè che sale e che amo prepararmi da solo. La scelta del companatico. La tranquillità del proprio rifugio, mentre fuori il sole sorge e la luce avanza. Il canto degli uccelli. Un momento di religioso raccoglimento prima della giornata da affrontare. Qui nessuno ti spintona per scegliere quale bombolone o cornetto accompagnare al cappuccio. Cento volte meglio il pane che mi faccio tostare sul grill elettrico e che divido col mio “bastardo” scodinzolante, che la moscia sensazione di precarietà che le tazzine vuote incutono, una volta abbandonate alla mercè della lavapiatti.

sabato 11 maggio 2013

Quando non ci sei



Sei a casa tranquillo dopo la mattinata di scuola, dove ti hanno frastornato in ogni modo. Inutile spendere filippiche sulle classi che peggiorano di anno in anno: è una realtà che denota una lenta inesorabile destrutturazione sociale. La cosa che ci preoccupa, prima ancora dei disastri didattici, è il fatto che un domani ormai prossimo, saremo in mano a queste generazioni. Non si può generalizzare, certo. Qualche anima pia ancora la si ritrova nella suburra urlante che ogni giorno affronta la giornata scolastica. Mosche bianche. Agnelli tra i lupi…L’importante è riuscire ad educarli alla giusto candore combinato con una sufficiente scaltrezza per evitare i danni che il mondo di fuori arreca senza troppe cerimonie.
Basta con la scuola della quale sempre scrivo per deformazione professionale. La questione è un’altra e di ben differente spessore. Sei in casa. Mi sono fermato qui.
 Fuori maggio sbuffa i primi caldi, quelli che ti mettono fuori fase. Poltrona. Lettura di una rivista specialistica dedicata a sette e nuovi movimenti religiosi. La testa duole lievemente a causa dell’allergia che mi tormenta. Sento i vapori di uno stato di intontimento strano. Cedo, non so perché. Così, dopo aver letto un  articolo mi si picchia nella zucca che devo andare a prendere mia moglie che termina le sue lezioni alle 16 e 30. Parto come un treno. Con un caldo da forno arrivo a Trecate, posteggio e aspetto. Mia moglie non arriva. Il sudore mi imperla la fronte. Passa un quarto d’ora e la processione di bambini e genitori sgocciola. Provo a spiegarmi il perché del ritardo. Uno qualsiasi: una chiamata in segreteria, qualche mamma particolarmente ostica che ti blinda con le sue solite menate. Mezz’ora. Niente. Ormai sudo copiosamente. Mi sento avvolto in un’atmosfera densa e surreale. Poi l’illuminazione! Mia moglie terminerà alle 18 e 30 perché ha il famigerato interclasse. Ecco cosa accade quando non ci sei. Rivolto a me, naturalmente, fermo come un bamba ad aspettare chi uscirà dopo due ore. E pensare che ce lo siamo vicendevolmente ricordato.
         Quando non ci sei…No! Non si tratta del solito refrain che diventerà il tormentone dell’estate alle porte. “Quando non ci sei” in senso puramente esistenziale, una condizione che si può cogliere con un minimo di esercizio e non altrettanto facilmente mutare.
         Quella condizione che ti fa compiere azioni assurde per le quali non riesci a spiegarti le motivazioni, se ne esistono.
         Un momento! Il sottoscritto ha ricevuto una formazione filosofica solida. Perché, allora, scrivo che non si trovano motivazioni per l’agire nella totale inconsapevolezza, dato che di questo si parla. Semplificando. Perché ammetto che, alla fine dei conti, per tutto non si può avere una spiegazione plausibile se non provabile? Tanto varrebbe dire di avere incontrato un tritone o sirenide, al posto della sua femmina sempre ambita e sognata.
         Tutto non si può spiegare. Un bel dilemma anche se si ricorre alla discesa negli inferi dell’inconscio, per assistere all’eterna lotta tra es ed ego fino a quando non si intromette quel super che pretende sempre di avere l’ultima parola e di fare il controllore.
         Il problema è molto più semplice di quanto vorrebbe farci intravedere la nostra mente, spesso responsabile di ogni deragliare verso le paludi del non esserci. E poi, cosa dire di qualche possibile agente esterno che come compito ha quello di rovesciare ogni volta la scacchiera quando ti stai illudendo di poter vincere la partita con qualche azzardata mossa. Lasciamo da parte ogni puzzo di zolfo, ripensando al protomedico Tadino, il quale disse che il diavolo è troppo sottile e che ogni sua denunciata presenza non è null’altro che la risultante della nostra stupida voglia di vederlo all’opera. Forse aveva proprio ragione, ma così tornerei a smarrirmi nei fumi dell’inconscio e lì i mostri non si risparmiano, acquattati nelle selve interiori.
         Mi sono dimenticato dell’appello alla semplificazione! Quando non ci sei basta un bottone strappato alla giacca per finire a Bagg a sonà l’òrghen! M’è successo questa mattina alla prima ora. Togliendo la tracolla dalla spalla, la cinghia s’è portata dietro il bottone della spallina. Subito ho pensato alla figura da sfigato. L’amor proprio ferito che si spande per un bottone. Poi l’immaginazione sullo scorno che s’assomma a tutti gli scorni degli ultimi giorni. Due più due che non fa sempre quattro e quel ribollire dentro che t’annebbia portandoti via il poco rimasto dopo una notte difficile. Quanto basta per sclerare, direbbe il solito perfezionista che pretende d’essere impeccabile anche dopo una giornata di miniera.
         Ferma un po’! In fondo mi s’è staccato un bottone. Meno ancora di un piatto di lenticchie. La miseria conclamata, si dovrebbe ammettere. Un bottone si riattacca con ago e filo. Bastano cinque minuti di pazienza e la spallina torna come nuova. Ma la mia vita, quando non ci sono? In quale putrido recesso la vado a gettare?
         Una bella pedalata fino a Baggio per provare! Questo mi rimane…quando non ci sono.
        
         

venerdì 3 maggio 2013

Il bandolo della matassa


Entra un tizio veloce e in retromarcia e mi sbatte contro uno dei pilastri del cancello.
La botta è forte e in una frazione di secondo, come si dice, ti ritrovi bello che stordito e ci vuole un attimo prima che t’accorgi che quello che ti ha pesantemente speronato è un camion frigo dell’Eismann.
Cosa strana: non mi incazzo. Scendo e guardo il retro sfondato della mia Mercedes, il fanale in frantumi e la portiera di destra con dentro lo spigolo del pilastro grattugiato dall’impatto.
Il tizio scende. Mi viene vicino e dice con candore:
- Non mi sono accorto che lei stesse uscendo dal suo cancello.
Chissà perché non lo rimprovero duramente. Ne sarei pienamente in diritto. Sono come disincarnato dalla situazione che sto vivendo. Stento ancora a capacitarmi mentre penso alla lezione che avrei dovuto tenere quel pomeriggio in facoltà e che sfuma via come un miraggio malgrado le mie buone aspettative.
Ci vuole un attimo prima che riesca a rinvenire il bandolo della matassa che s’è srotolata attorno alle due e trenta di un qualsiasi e insulso giovedì. Cosa ho scritto? Una giornata può essere insulsa? Credo proprio di sì, perché al mattino anziché poter fare scuola mi sono dovuto sorbire l’incontro con la Croce Rossa, utile certo, ma una terribile perdita di tempo quando l’anno scolastico si trova ormai agli sgoccioli e già cominci ad assaporare la voglia di liberarti da orari e impegni funzionali all’insegnamento. Il risultato è un leggero mal di testa perché non sopporto il sole e il pizzicore dei pollini comincia a farsi sentire.
Un momento! Sono ancora con il tizio dell’Eismann. Ci sediamo sotto al gazebo che ho montato proprio ieri, primo maggio. Costatazione amichevole. Dati. Assicurazioni, patenti. Lui che mi racconta degli altri incidenti che gli sono successi sempre entrando in retromarcia in vicoli privati e chiusi come il mio. Una storia di tutti i giorni. Capita, tra un pacco di patatine fritte e una confezione di gelati al cioccolato. Certo è che se mi avesse preso un metro solo più avanti, sarei finito all’ospedale e non so in quali condizioni. Tutto perché non mi ha visto e manovrando all’indietro guardava solo nello specchietto alla sua sinistra. Cose del genere, capitano troppo spesso!
Poi arriva il carrozziere, accerta il danno e non crede al tizio dell’Eismann quando gli racconta che stava entrando adagio. Intanto l’auto non riparte. Queste meraviglie della tecnologia tedesca con chissà quante centraline e computer di bordo, quando s’inchiodano non si riaccendono nemmeno se le attacchi ad un traino di muli.
Da parte mia me ne rimango li a guardarli mentre tentano il possibile per riavviare il motore e ritirare il povero mezzo incidentato nel cortile di casa. Mi sento strano. Leggero. Non posso dire assente, ma invischiato in una dimensione ovattata dove sembra impossibile scadere nell’ira funesta del pelide Achille. A cosa servirebbe poi, dato che il tizio, che scopro chiamarsi Stefano come mio fratello, s’è dimostrato disponibile nell’ammettere la sua colpa e detestarla?
Intanto la mia auto ridotta a mal partito non riparte. Tutto gira, tutto s’accende, navigatore pure, ma il motore non accenna a nulla, solo un sussultare desolato del motorino di avviamento.
Comincio a sentire la sconsolazione montare, mentre tutti parlano e si perdono in mille considerazioni. Prima il carrozziere chiama la concessionaria Mercedes di Novara dove gli dicono che solo loro sono in grado di eseguire diagnostiche del sistema accurate. Per evitare costi simili a fucilate, ricorriamo al mio elettrauto di fiducia. Lui, dopo essere arrivato, con qualche abile manovra, capisce tutto. L’intoppo è dovuto al fusibile della pompa del gasolio che s’è bruciato a causa dell’impatto. Una volta sostituito, il motore riparte. Unico particolare: un iniettore che sfiata.
Tutto sembra finito. L’auto è accesa. Devo solo portarla dal carrozziere al resto penseranno le assicurazioni. Il tizio dell’Eismann, Stefano, è da un ora fermo col suo camion in mezzo al mio vicolo. Mi segue mentre controllo le fotocellule del portone.
- Mi dispiace di averle rovinato la giornata! – Dice mentre risistemo la mascherina ad uno dei sensori. Mi alzo e lo guardo. Poi dico:
- Mi ha rovinato la macchina, non la giornata.
- Mi dispiace, - aggiunge prima di ripartire per il suo consueto giro di vendite alle  sue clienti tra le quali c’è mia suocera.

Uno scorno. Un terribile scorno, per fare il verso alla poesia. Ci vuole un’ora prima che riesca a realizzare l’entità del pericolo che ho corso. Questo avviene quando recupero il bandolo della matassa dell’esistenza.
Sono andato a riprendere mia moglie a scuola usando l’auto di mio suocero. Lei intuisce subito qualcosa quando mi vede salutarla dal finestrino della Ipsilon grigia del padre.
Mentre le racconto l’accaduto, sento la precarietà dell’esserci salire dal profondo. Un metro e mi avrebbe colpito con lo spigolo posteriore del cassone frigo conciandomi per le feste. Questo è il significato della stranezza che mi ha assalito fino dai secondi dopo l’impatto. Così sarebbe finito il piccolo padreterno che troppe volte mi racconto di essere.
Non riesco a capire il perché, ma necessita tutta la sera affinché riesca a recuperare qualcosa, tenendo in mano il ritrovato bandolo della matassa. Riavvolgo la mia vita, lentamente, fino a quando è possibile, prima di addormentarmi chiedendomi quale senso possano assumere gli avvenimenti che ci accompagnano nell’economia della quotidianità.
Prima di cedere al sono, dalla televisione vengo a sapere che oggi è morto Max Catalano, il filosofo dell’ovvio amico di Renzo Arbore, quello che diceva che si vive meglio con due pensioni piuttosto che con una. Come avrebbe filosofato al mio posto?
Meglio avere la macchina da carrozziere che essere all’ospedale con la spalla fracassata e il viso coperto di tagli, e qualche lesione interna guaribile in una manciata di giorni.
E’ questo il bandolo della matassa?



lunedì 29 aprile 2013

Disinformare


immagine dal web

Il potere della disinformazione. Un potere immenso, soprattutto quando va a confondere le già ingarbugliate idee delle troppe persone che si trovano a vivere un crisi che odora ormai di un’induzione occulta e preoccupante.
Poi accade l’inverosimile. Qualcuno anziché urlare spara e a cadere sono altri innocenti perché il problema, anche se molti fanno finta di non sapere, è che sono sempre i soliti a pagare.
Dopo questo cappello occorre che vada a fondo della questione. Il problema è la disinformazione, quella che tambureggia ovunque, dai format  televisivi dove si litiga ad oltranza e appaiono sempre i soliti tromboni ben pagati, ai quotidiani online, dove l’ideologia impera sotto svariate e mentite spoglie. Non è un paradosso, ma la rete disinforma sommergendoci sotto una marea di opinioni. Tutti che vogliono dire la loro. Tutti che sbraitano e fiumi di parole che scorrono. Con questo non voglio affermare che tutti si propongono nel web con l’atteggiamento pericoloso dei bricoleur senza frontiere. No, perché esistono spazi gestiti con estrema professionalità, rispetto e scrupolo. Spazi che rischiano il bavaglio per colpo chi altro non  sa fare che cedere all’insulto, come si continua a vedere e a leggere. Quando accade questo, la verità, è che cominciano a scarseggiare le idee e  se le idee non ci sono, non si è in grado di essere propositivi. A questo conduce la disinformazione.
Con un passato da articolista alle spalle, mi rendo conto di quanto informare sia difficile. In-formare, mettere nella forma, dare una forma. In verità sembra proprio il contrario. Si disinforma, si tira fuori, si bombarda e con eloquente eleganza. Si sceglie quello che interessa a discapito della completezza. Si copia, si taglia e incolla. E’ così semplice, soprattutto per coloro che hanno una certa dimestichezza che l’informatica. E poi, con quale controllo! In internet gira di tutto. Vero. Ma non circolano più le idee. Almeno. Circolano, ma rallentate e mistificate dal pattume.
Occorre maturare la consapevolezza che permette di giudicare senza scadere nella critica gratuita e ideologica. E’ questione di cultura. Come sempre.

sabato 6 aprile 2013

Detti dell'orso orchesco 1

Malesco, via Minazzoli (foto Massimo Caccia)

    
            Quante volte ho calpestato i selciati delle vie di Malesco? Dovrei fare il conto degli anni da quando passo le mie vacanze in questo comune della valle Vigezzo. L’estate che verrà sarà la quinta, se i conti che faccio a mente non mi tradiscono. Cinque anni di vita non sono per niente pochi. Mezzo lustro, come qualcuno potrebbe affermare.
         Mezzo lustro o cos’altro, cinque anni sono un bel pezzo di vita e nel loro arco temporale di cose ne possono accadere veramente tante. Troppe, per coloro che hanno uno stomaco delicato per digerire senz’affanno gli scorni di un’esistenza. Il mio non lo riconosco più. Ultimamente mi rende laboriosa ogni digestione. Sembra che il metabolismo del mio organismo sia improvvisamente mutato e non solo in materia di cibo, quello che si ingurgita senza alcuna educazione. Un altro procedimento chimico s’è messo a fare i capricci: l’alambicco degli stimoli spirituali. Un cambiamento strano, se lo osservo con attenzione. Un equilibrio che mi sospinge verso una riluttanza nei confronti del genere umano senza precedenti. Oddio, orso lo sono sempre stato, ma non orso orco, come oggi bonariamente pare. Sapevo del gatto lupesco, ma non ancora dell’orso orchesco!
         Ero lungo le vie di Malesco (rima non voluta!), tra le case antiche del centro, quelle che i vigezzini hanno costruito con il denaro guadagnato all’estero spazzando camini o prodigandosi in professioni più nobili. Un sapore forte del tempo si gusta respirando a pieni polmoni l’aria del posto. Le solite vie, potrei obiettare. Sarà, ma non sono un abitudinario. La routine, anche quando applicata al tempo libero, non funziona nel mio caso. Non esco ad orari fissi, nemmeno per regolare il cane nelle sue necessità. Sono fantasioso anche in questo. Fantasioso e approssimativo.
         Le vie, devo tornarci ancora, se desidero fare il conto dei giorni che ho vissuto qui. Lo voglio fare per sentirmi vicino a quanto scritto da Paul Auster in “Diario d’inverno”, dove ha fatto il computo dei giorni che ha vissuto in tutti i luoghi dove ha abitato durante i suoi sessantaquattro anni di vita. So bene che per il mio problema i dati mutano. Vorrei sapere quante volte ho percorso le strade di un luogo in particolare e questo cambia non poco. La tesi che tento di dimostrare è differente poiché il cammino, per me, implica il pellegrinaggio della ricerca, non la staticità dell’abitare con il conseguente ritorno dell’abitudine.
         Se calcolo due mesi pieni per estate, ovvero sessanta giorni commerciali (che brutto pensare sempre al mercanteggio!), altrettante Pasque e Natali, ne esce questa operazioni a dire il vero poco problematica: 60+5+15X5=400. Quattrocento giorni. Quattrocento passeggiate per le strade di Malesco e non solo, dato che dovrei unire le quotidiane puntate in centro a Santa Maria Maggiore per l’aperitivo, le discese a Domodossola e altre scarpinate (alpe Blitz, Cascine in Val Loana etc…). Calcolare i chilometri mi risulterebbe maggiormente difficile dato che non sono solito misurare le distanze. Ma i passi? Questo risulterebbe interessante e sarebbe sufficiente un normalissimo contapassi.
         Bene! E adesso?
         Adesso posso solo affermare che, malgrado la frequentazione di strade e piazze, ogni passo è sempre differente, grazie al cielo. L’orso orchesco non ha ancora smarrito le sue capacità mimetiche, dato che sfugge ad ogni forma di adattamento intellettuale.

venerdì 29 marzo 2013

...tempo perduto...


Perdere tempo. Cazzeggiare col pc. Ciabattare in pigiama per la casa senza avere in testa null’altro che un fastidioso tedio come strascico notturno. Fare domani quello che potrei fare oggi. Mi capita sempre più spesso. Non so se sarà colpa degli anni che passano, ma una stanchezza non buona mi costringe in uno stato di pigrizia insolito.
Non posso dire di fare nulla di nulla. No. Ma quello che faccio, lo faccio male. Così mi sembra.
Annoto qualche pensiero. Sbuccio versi insipidi sentendo dentro il vuoto del poeta che ha smarrito la sua ispirazione. Leggo tutto quello che mi capita a tiro, disordinato come un cuoco quando mangia (come sostengono i savànt del cibo).
Poi ci si mette l’uggia della Settimana Santa con le vacanze dalla scuola, i figli a casa, la voglia di partire per passare qualche giorno in montagna e…Imparare che non sono mai riuscito a fare niente senza cadere nella noia dell’insoddisfazione.  Capire come la meccanicità del quotidiano mi mette in crisi d’astinenza rispetto alla routine dell’esistenza. Rimangono le sganasciate imposte dagli sbadigli, quelli che segnano la caduta nella topica dello spleen. Sarà questo il male di vivere? Senza troppe cerimonie, lo ridico: vivere fa male, è per stomaci forti, per intestini abituati a digerire i rugginosi chiodi della realtà.
Non si può vivere senza mai cercare di esserci almeno una volta! So che potrebbe venire letta come una sparata, questa frase, ma sfiora la verità, quella dimensione dove le giustificazioni, anche quando buone e legittime, non contano più nulla. Quanto è vero è vero in barba al fatto che mi possa piacere o fare comodo più o meno.

mercoledì 27 marzo 2013

In quel tempo...

immagine dal web


“In quel tempo Mosè scelse tre città oltre il Giordano, a oriente, perché servissero di asilo all’omicida…” (Dt 42 e ss.)

Mosè scelse tre città rifugio per gli assassini. Tre città oltre il Giordano, sempre più a oriente, laddove il sole torna al mattino e la speranza indugia dopo le angosce della notte.
Non ho mai odiato nessuno fino alla morte, se ci penso bene. Ho odiato per fare del male, immaginando chissà quale violenza per cazzottare un viso e renderlo una maschera sfigurata. Pugni fino a spellarsi le nocche e mescolare il mio sangue con quello dell’uomo che avrei voluto castigare rompendogli il grugno.
Qualche faccia la ricordo. Uno che mi spinse dalle scale della tribuna allo stadio. Erano gli anni delle scuole elementari e i giorni dei Giochi della Gioventù. Erano i momenti per le imprese eroiche, quelle che avrebbero dovuto farmi cadere ai piedi le ragazzine delle quali mi sono sempre invaghito. Poi vennero gli occhi di mia moglie, ma questa è un’altra storia.
Quel tizio aveva una faccia da stupido. Uno di un’altra quinta. Non so perché mi spinse. Magari fu solo un caso. Forse incespicò sul cemento dei gradini consunti, ma l’odio che mi accecò fu tale che lo avrei massacrato. Lui, con quella faccia irritante. Il ghigno sardonico e gli occhi da ebete. Un volto che mi ha perseguitato spesso, nei sogni e negli incubi.
Un altro fu un certo Panizza. Uno che sotto la naja cercò di farmi subire il più bieco nonnismo. Lo avrei bastonato volentieri torcendogli le dita da topo che si ritrovava. Non lo feci. Mi limitai ad altre forme di vendetta, come abbandonarlo in autostrada al primo casello utile perché potesse raggiungere casa sua, in quel di Casale Monferrato, impiegandoci più tempo possibile. Un’uscita lontana quanto bastava perché si fottesse parte della licenza breve, un manciata di ore, alla ricerca di passaggi e mezzi vari. Era così stupido che non colse la sottigliezza e dopo poco venne congedato. Un uomo senza onore tra i troppi.
Oggi è un ricordo, ma le città rifugio  oltre il Giordano non mi fanno dimenticare che anch'io ho gustato, e talvolta ancora gusto, la feccia dell’odio. Si lo ammetto! Quello slavo che per anni è stato amministratore dei beni immobili della mia famiglia e che dalla morte di mio padre altro non ha fatto che succhiarci soldi in ogni modo. Un italianissimo slavo, nato a L’Aquila, col cognome che finisce “ic”, in maniera nemmeno troppo elegante.
Il mio è l’odio dello sprovveduto. L’odio di chi, per pigrizia immane, mai prende carta e penna e si mette a fare i conti. Sembra che un demone cretino mi induca per snobismo a mai fare quello che il buon senso suggerisce. Messere è troppo aulico per sporcarsi le dita con i conti della serva e scartabellare tra ricevute, fatture, consuntivi, spese e balle varie.
Spesso mi immagino aspettarlo tra i chiaro e lo scuro. Sbatterlo a terra. Immobilizzarlo e colpirlo fino al lasciarlo tramortito al suolo, lui, con quegli improbabili baffetti e la mosca da spadaccino fasullo. Gli starebbe proprio bene, ma…Ma cosa sarebbe di me dopo?
Le città di Mosè sono altrove nella storia e nella geografia delle passioni umane. Così preferisco la pazienza che la ricerca della giustizia insegna a costruire.

martedì 26 marzo 2013

Riempire...forse!

"Idealità e morale sono i mezzi migliori per riempire quel gran buco che si chiama anima"
(Robert Musil USQ)

L'anima come un immensa voragine che vorremmo a qualsiasi costo riempire...e poi? Una volta strafogata col tutto? Satura di inutile fino alla feccia?
Con il trascorrere degli anni ho imparato a prediligere il vuoto, invece. Vuoto e silenzio quando il mondo scade nel chiasso tonante e nelle grandi abbuffate.
Meglio un vuoto a rendere piuttosto che un vetro pieno di un liquore andato a male per dire che quanto riempiva quel recipiente me lo sono gustato negli anni!



sabato 9 marzo 2013

La scuola che vorremmo

immagine dal web (protesta!)

Le esperienze che si vivono da insegnanti, quando ci mettiamo la giusta attitudine, possono essere umanamente straordinarie (senza retorica).
In un momento di grave crisi come quello che siamo costretti a vivere, non è detto che le idee più stimolanti non possano arrivare dalla fantasia dei ragazzi.
Ammettiamolo! Le nostre classi sono sempre più difficili. La disciplina sembra essere stata dimenticata come l’idea di educazione. La didattica messa da parte, sostituita da una valanga di progetti spesso inutili e onerosi in materia di tempo e risorse.

La strutture scolastiche sono fatiscenti (e non solo al Sud). Gli arredi scolastici inadeguati. In una mia classe, alunni di seconda media, alcuni alti e corpulenti, sono costretti in banchi da scuola primaria inadatti per ogni tipo di attività (sulla stessa superficie affrontano il lavoro su tavole di arte e tecnica con risultati facilmente immaginabili). Altro? Il caldo infernale a causa di un impianto di riscaldamento desueto e ingestibile che divora metri cubi di gas metano senza un minimo criterio e razionalità nei consumi (poi educhiamo al risparmio!). Anche con nebbia e galaverna, fin dalle otto del mattino siamo costretti ad aprire le finestre per dare sollievo agli alunni, obbligati a rimanere in maglietta a maniche corte, oltre che ingollare litri d’acqua per placare l’arsura.
Con ambienti del genere, i soliti colleghi illuminati, sono convinti di ottenere il meglio! Per questo a scuola sei ore filate.

Ma loro, i ragazzi, che scuola vorrebbero?
Talvolta mi capita, lo confesso, di seguire l’ispirazione e catturare l’attimo.
Proprio ieri, venerdì 8 marzo (sic!), all’ultima ora (13-14!!!), in una seconda particolarmente vivace, il dibattito si è focalizzato sulla questione scuola. Non è un paradosso. Siamo partiti dall’idea di comunità. Cos’è? Quali sono le sue dinamiche?
Questa seconda è una classe che fa gruppo (lo sanno e ci marciano). Una classe che, se non tenuta, deborda in un rumore infernale (casino, come dicono loro). Ma se guidata, stupisce!
“La comunità è un luogo dove ti senti accolto!” La risposta di Asia. Un risveglio, per me, queste parole.
Loro sanno quello che vogliono, allora. Una scuola dove puoi stare bene. Dove alunni e docenti sono una comunità educativa e formativa. Dove le responsabilità vengono condivise nell’ottica di un bene comune in grado di far crescere ognuno secondo le proprie caratteristiche umane e potenzialità intellettuali.
Invece gli propiniamo modelli scolastici dove si parla solo di valutazione, dove si esercita il potere del voto in maniera ottusa, dove si riempiono i registri con romanzi di note senza sapere che quello che conta, nella correzione, è il saper costruire una relazione con i ragazzi, prima di bastonarli duramente con provvedimenti alla Pinocchio. Per non parlare del bullismo…Un fenomeno che ha contagiato anche qualche collega idiota!
Vorrebbero una scuola agile, dove sono gli alunni a cambiare classe e non gli insegnanti costretti a odissee quotidiane. L’aula di scienze dove il docente ti attende con tutto quanto necessita per la lezione. Dove il prof può lasciare il suo materiale evitando i cassetti loculi dove infiliamo di tutto e di più così che, quando arrivi a giugno, esplodono.
L’aula di lettere! Libri, anche se sembrano fuori moda. I Pc, le Lim, va bene! L’aula per le materie artistiche: grandi banchi, gli immancabili lavandini per sciacquare pennelli e piattini vari, lavarsi le mani dopo avere usato carboncini e tempere. Invece…Già detto e scritto: lo sfacelo.
Un luogo che accoglie, piuttosto che il mal di pancia quotidiano quando sai che devi affrontare lo spauracchio di chi ha poca dimestichezza con la responsabilità di ritrovarsi in cattedra. E credetemi…I concorsoni  (ma non li avevamo aboliti?) non risolveranno nulla, anzi…Metteranno in cattedra personaggi che con la scuola non hanno nulla da spartire!
Una comunità. Ecco cosa suggeriscono i nostri alunni. Regole poche e chiare, non un ginepraio di norme. Sostegno e risorse, dove le eccellenze non discriminano, ma liberano quello che necessita per il recupero delle carenze.
Un sogno?
No! Un cantiere da aprire.

lunedì 4 marzo 2013

Fenomenologia del blogger solitario

E' da settimane che non aggiorno il mio blog. Ne sono consapevole. Ho cominciato leggendo sempre meno i blog degli altri. Quelli di quanti se non li leggi tu per primo, loro non ti leggono affatto. E su questa faccenda mi sono messo a pensare. Quali relazioni saranno mai, da un punto di vista umano, quelle che sono tornate ad osservare l'antico adagio del do ut des?
Mi sono già fermato, ma la qualità delle relazioni che si intrecciano sul web è un interessante campo d'indagine. Dunque tranquilli, probabili lettori: non giudicherò nessuno a causa del personale modo di abitare la rete. Quello che mi interessa è capire le dinamiche che regolano quest'ingente massa di byte che si muove quotidianamente e il resto a dopo.

Per come ho impostato il titolo, quella che segue potrebbe apparire come una dotta disamina clinica. Niente affatto! Se di patologia saremo costretti a trattare, sarà dopo una lunga ed accurata, senza dimenticare gli inciampi fisiologici, quelli che rendono interessante ogni possibile discernimento.

Chi vivrà (spiritualmente parlando), vedrà!

giovedì 7 febbraio 2013

hic et nunc


la zavorra del fango
misura dell’esser-ci
liquidato il riscatto
sprofondo
nel bagliore algido
del tramonto

dico ci sono, ora
nel forse approssimato,
l’abbraccio che scioglie
la densità del presente,
forgia la chiave
del sancta sanctorum

domenica 20 gennaio 2013

Su Inno a scuola

immagine dal web

Peeepperepèèèèè!!! Udite udite gente. A seguito di scempi spacciati per riforme, le ultime trovate per fomentare un becero nazionalismo fanno cadere le bretelle. I signori senatori e deputati anziché preoccuparsi di porre fine all'infamia del porcellum preferiscono far passare disegni di legge dove vengono imposti inno e bandiera ed inventate giornate ad hoc. Ormai dovremmo avere imparato che vasi inania multum strepunt! Poco importa se le scuole cadono a pezzi, se mancano i banchi e la carta per il cesso, se i genitori devono pagare le fotocopie, se gli insegnanti sono sottopagati e altre amenità, non soffermandoci sull'ignoranza morale e civile che sale. Tutti tranquilli, perchè abbiamo le LIM, le cl@ssi 2.0 .

Verissimo. Ci beccheremo l'inno a scuola e con il diktat di saperlo tutti. Come se la naja non fosse bastata a chi se l'è dovuta smazzare (zaini pesanti e muli cattivi)!L'ultima trovata per rattoppare la repubblica fallita (seconda o terza che dir si voglia) e addolcire la marea di "rumenta"che c'attende dopo le prossime elezioni!

Gli Inglesi hanno "God save the Queen" e "Rule Britannia" quando devono bastonare qualche ribelle fondamentalista o dittatorucolo impenitente. I Francesi "La Marsigliese" che ti gonfia il cuore. I Tedeschi un Inno composto da Haydn. Il Vaticano commissionò a Gounod il proprio salmo nazionale. Quello Russo ancora spacca, quando lo canta il Coro dell'Armata Rossa e fa seguire come bis Kalinka assieme a fiumi di vodka. Il nostro? Beh, avessimo scelto Va pensiero (il popolo sconfitto ed esule)...ma Verdi è troppo alto per la nazione del Grande Fratello e l'Isola dei (falliti) famosi.
Invito a leggere quanto scritto da Filippo Facci (estimatore di Wagner e altra musica colta) riguardo il nostro inno nazionale. So che il soggetto non è un simpaticone, ma almeno ne capisce di note e pentagramma.

La Bella Gigugin, daghela avanti un passo. La Madunina, Ma mì e Porta Romana...O sole mio, Vitti nà crozza, Funiculì Funiculà...non andrebbero meglio? Almeno sono folklore e sana cultura popolare, oltre che essere retaggio di studi antropologici.
Unicuique suum!!!

domenica 13 gennaio 2013

...una domenica....


Grigio

Grigio per oggi
quando non esco
e annaspo di noia
non stare nel nulla

Dita intrecciate
ozio d'ebbri pensieri
alcol che evapora
amaro sentore

E’ passata
la sbronza idiota
delle passioni
il male alla testa

La mossa
dello struzzo
- penso -
bambino scemo

Sono l’idiota
di turno
ora padrone
di cartaceo livore