lunedì 30 maggio 2011

...un pomeriggio, Varallo ed alcuni ricordi...

Varallo Sesia
Capita, di domenica, non saper cosa fare. La voglia sarebbe quella di rimanersene in casa ad oziare passando da un’occupazione all’altra oppure a fare niente, cosa che negli ultimi mesi ho apprezzato sperimentando la dolcezza del lasciarsi andare, del dare tempo al tempo.
Oggi è lo stesso copione. Gli impegni della mattina, il rientro a casa dopo le solite quattro pettegolezzi fatti al bar in piazza davanti ad un cappuccino fumante. La sorpresa di rientrare e trovare tutti già svegli. La bella domenica!
Poi la decisione. Improvvisa, dopo pranzo e a seguito, per me, di alcuni bicchieri di gewurtztraminer bello gelato seguiti dalle immancabili lacrime di grappa come ammazza caffè.
“Dove andiamo?” chiedo a mia moglie ancora seduto a tavola. Una domanda sofferta dato che il separarmi dalla prospettiva di andare a rifugiarmi nel mio studio stava sfumando e per mia stessa iniziativa.
“Non so! Vorrei tornare al Boden. Sono anni che non ci andiamo”, propone.  Si, sono anni e l’ultima volta che vi siamo saliti abbiamo trovato il santuario chiuso: una delusione anche se è un luogo dove è estremamente difficile trovare qualcosa di nuovo oltre il silenzio e la pace cullati dalla leggera brezza che spesso spira lungo la valle dell’Ossola prima di diramarsi tra lago Maggiore e lago d’Orta. Il paesaggio ci ha consolati. 
L’idea sarebbe il Boden invece, dopo la routine del gasolio, puntiamo la rotta verso la Valsesia, Scopa, la casa di famiglia, quella dove abbiamo trascorso attimi felici, luogo di ricordi ed impressioni forti. E’ un anno che non vi facciamo ritorno.
Percorriamo il tratto di autostrada necessario per uscire a Romagnano Sesia. La pianura con la sua estensione cattura le mie impressioni mentre parlo con Giovanna. La preoccupazione di oggi sono i turbamenti di nostro figlio, le sue paure, le sue difficoltà. Da ieri sere è in crisi per un litigio con la ragazza. Inoltre, con gli amici d’infanzia ha rotto ogni legame quando questi sono caduti nel vizio estremo delle “canne”. 
Campi. Filari di pioppi. Lontano i monti con il  loro profilo. Riconosco il Monbarone, il Monte Bo di Valsesia, il Corno Bianco. Cime che ho asceso, qualche chilo fa anche se il richiamo di quelle altitudini è forte. Forte come la voglia di scrivere. Forte come il desiderio d’imprimere una sterzata definitiva alla vita ed alla quotidianità, di conseguenza.. 

Paesi che sfrecciano e verde, tanto verde. Il verde selvaggio della Valsesia. Il verde dei larici che ammantano la Val Vogna.

Parete gaudenziana Chiesa delle Grazie Varallo Sesia
Varallo Sesia merita sempre una visita. Il piccolo centro storico è ricco di case antiche, palazzi, piccole piazze e prospettive attraverso le quali è facile scorgere la sommità del Sacro Monte.Varallo e Gaudenzio Ferrari. Il suo ingegno. Non abbiamo tempo, altrimenti una visita alla parete gaudenziana presso la Chiesa delle Grazie è di dovere. Un miracolo dipinto, un gigantesco affresco. Il giusto preludio ad ogni visita al Sacro Monte, super parietem, come veniva definito il complesso monumentale oggi patrimonio dell’Unesco.
Giovanni Testori

Varallo e Giovanni Testori scopritore dell’arte valsesiana, esegeta del Tanzio. Non poteva mancare l’essenziale aggancio letterario dato che, per me, ogni viaggio è letteratura, compreso lo spostamento più insignificante. Memoria, immagini, poesia, emozioni. Di Testori ho letto per la maggior parte gli scritti dedicati alla storia dell’arte. Rammento la gioia di avere avuto tra le mani la rarissima prima edizione dell’opera dedicata a Gaudenzio ed al Sacro Monte intitolata “Il Gran Teatro Montano”. Più che un saggio un miracolo di critica appassionata. La riscoperta di un artista poliedrico quale fu il Ferrari forse vicino ai circoli leonardeschi di Milano dove lavorò nella bottega di Stefano Scotto. Solo successivamente sono passato a scoprire il Testori poeta, quello dei Trionfi, di Ossa mea. Il Testori narratore è stata una tardiva esperienza. Non mi sono dispiaciuti i racconti de “Il ponte della Ghisolfa”, raccolta scritta con quella bella prosa lombarda.


           Ci concediamo un buon aperitivo seduti all’interno del Caffè Roma, sul corso principale, un bel viale alberato memoria di un passato turistico che ha animato questa cittadina agli inizi del novecento. Le ville che arricchiscono il corso ne sono una viva testimonianza, oggi restituite al loro splendore da accorti restauri. Varallo è pareticolarmente viva, in questo pomeriggio di fine maggio.
Davanti ad un prosecco ed un crodino, con qualche tartina da gustare, chiacchieriamo anche se Giovanna denuncia un malessere che la incupisce.
Quattro chiacchiere e quattro passi. La piazza Vittorio Emanuele II con la Collegiata di san Gaudenzio abbarbicata alla roccia. Siamo attirati da alcuni gazebo sotto ai quali si vendono prodotti del territorio. La gola richiama: sempre! Qualche doveroso assaggio: salami di cinghiale, cervo, un fidighìn alla novarese eccezionale. Manca un sorso di vino, un buon rosso dei colli novaresi: tutto non si può pretendere. Poi l'acquisto: una profumatissima toma del Mottarone, un salimino di cervo.

Quattro passi e ricordi che affiorano. Varallo è bella nella sua discrezione provinciale così adagiata tra i monti. Forse torneremo a vederla quest’estate.

mercoledì 25 maggio 2011

Come Icaro


Quel silenzio, il vento tra le prominenti fronde
laddove osa il nido della gazza…
e marzo che scuote le gracili frasche
mentre il caldo indugia tra gemme pigre
che ancora attendono prima di schiudersi…
Così la crisalide dell’anima, dentro,
nel viscerale nulla gonfio di cagliati umori,
timorosa di rimanere embrione malgrado
l’alitare dello spirito…le ali costano il sacrificio
dell’attimo e più in alto cosa?

sabato 21 maggio 2011

Un giardino da bagnare e la brevità della vita

            Non so perché, ma mi va di scrivere qualche appunto in margine alla lettura che sto facendo de “La vita breve” di Juan  Carlos Onetti. Il nesso col giardino? Le sensazioni che ho provato e provo, quell’impressione di provvisorietà che la fioritura suggerisce, soprattutto le rose che invadono di colore il verde, le foglie del magnolia che cadono copiose e secche, un sentimento oceanico dell’esistere che tutto travolge…
Juan Carlos Onetti
            Questa è una primavera insolita. Lo dico per varie ragioni. Primo il caldo. Non lo amo affatto anzi: lo detesto.  Quanto vorrei un’eterna primavera nonostante la spossatezza che prende, ma i colori, la luce, le atmosfere…
Questa mia pianura, che oggi coglievo nel suo fascino mentre mi smarrivo per i declivi di Oleggio, attorno a Novara assume la fisionomia di un mefitico deserto, con l’incombere delle prime giornate roventi ed umide. Bella Novara? Brumale, fatale…provinciale, ma con pretese…
Quest’anno il caldo si fa sentire prima ancora del solito. Non piove se non per qualche brevissimo istante e con scrosci burrascosi che non riescono a bagnare la terra in profondità per cui…giardino da annaffiare, la sera, dopo cena, prima dell’ora canonica dell’attacco di moscerini e zanzare. Apparentemente nulla di eclatante invece…mentre cerco di irrigare con giudizio piante e fiori, il fruscio del getto d’acqua mi suggerisce calma, evoca serenità, senso di riposo oltre che solleticare la fantasia e farmi amare quella manualità per la quale ho sempre avuto scarsa dimestichezza preferendo le sudate carte agli arnesi da lavoro.
            Mentre mi concedo questa pausa, prima del solito caffè forte e nero e del libro che riprenderò in mano, sempre se non deciderò di scrivere qualcosa, l’immaginazione mi conduce verso luoghi inesplorati dove veramente è possibile vivere dimensioni parallele al reale, spazi aperti sull’universo del sogno. Basta l’incanto molle della sera.
            L’olezzo del gelsomino viene esaltato dall’acqua mentre la terra secca rinviene liberando quel sentore di polvere umida e pesta che segue i rovesci temporaleschi quando la furia degli elementi scuote l’universo mondo.
            Onetti mi porta lontano, con la sua prosa poetica e tortuosa Il suo mondo è un intreccio di piani, uno sfumare di passioni che cullano in quel sopore che rende la vita lieve fino al punto di negarla nella tragedia. Brausen, transitando il fiume, il Rio del La Plata, da Buenos Aires a Montevideo si muta in Grey trasfondendo nella sua vita da medico tutti quei deliri irrisolti che lo turbano fino all’impotenza della lenta distruzione. Un mondo trasfigurato. Una moltitudine. Non so perché mi torna alla mente Pessoa/Bernardo Soares. Pur nella differenza stilistica e nella struttura narrativa, l’inquietudine sembra essere quel sottile filo che accomuna due scrittori. Una sola moltitudine, quella che abbiamo dentro. Quella che ho incarnata in me, fatta di tutti quei personaggi, spesso alter ego, di un mondo narrativo che intreccio alla mia quotidianità: tutti quei vorrei essere/non sarò mai... che il giardinaggio stimoli la creatività fornendo ispirazione?
            Ecco! Nell’incanto della sera, nella sua fiacchezza, nel torpore che accompagna il declinare di una giornata intensa e vissuta, le mie inquietudini s’attenuano in un gesto comune, un compito banale e consueto: bagnare un giardino, ma si sa che botanica e buoni libri possono realmente andare di comune accordo…e poi, alla fine, quello che conta è l’esserci per rintracciare ogni pretesto buono per narrare.

venerdì 20 maggio 2011

...cos'accade, talvolta...

Cos’accade, talvolta, nel rifrangersi
del silenzio - mi chiedo -
cosa stride, nel dopo?
Mia vita, fremito d’ali nel buio
attendere indefesso che l’incanto
ceda al mondo reale delle emozioni…
per’esserci necessita ascoltare
la quotidiana umiltà
l’esercizio del fare
la lenta rovina dell’abitudine…
se m’accorgo, per me, è sufficiente poco…
un barbaglio di veglia,
le mani piccole dell’alba…


martedì 17 maggio 2011

L'intermittenza della memoria

Il rifiuto della memoria, storica e non, sembra essere il male della pseudo cultura che lacera l’identità italiana e che vorrebbe appiattire quelle differenze che fanno la comunità intellettuale e la forza di un popolo.
            Personalmente ho sempre ritenuto un dovere umano ed intellettuale il fare memoria. Il nostro occidente si fonda su una tradizione che radica nell’esercizio della memoria il suo essere e sussistere ecco perché sarebbe opportuno rammentare che la negazione di tale verità porta inevitabilmente alla rottura se non alla ribellione (Buttitta docet).
            Ho appena terminato la lettura di “Sequenze di memoria” di Loriano Macchiavelli. Un bel noir, malgrado l’ètà. Amaro quanto basta. Duro, laddove necessario. Chiaro e diretto, dunque: attuale.
            Lo scempio ecologico, dramma che sorregge come un arco narrativo l’intero raccontare, rappresenta il pretesto per mimetizzare drammi umani irrisolti, passioni, per l’appunto che ancora persistono poiché abbarbicate a sequenze di memoria, per l’appunto.
            Senza memoria non può esistere narrazione, mi verrebbe da scrivere. Vero, dato che ogni situazione cha la nostra immaginazione è in grado di elaborare si fonda sempre su coordinate esistenziali che attingono dal mare magum del vissuto. Vissuto che viene rielaborato, distorto, rimosso, talvolta negato. Non posso contestare ciò di cui non ho fatto esperienza, dunque basandomi esclusivamente sulla facezia della chiacchiera e del sentito dire. Questo è il problema. Macchiavelli stesso lo sostiene: alla fine, la memoria grida la sua parte anche laddove conduce alla tragedia.
            Mi è piaciuto da subito il titolo: Sequenze di memoria.  Una sequenza è un insieme ordinato di dati, di operazioni, un ordine che, se io manipolo, non produce il risultato desiderato o richiesto. La memoria è un sequenza, manipolabile oserei affermare, osservando tra le pieghe delle vicende contemporanee anche se a rischio, come ho sopra scritto. Penso al DNA, all’idea di origine, di radice. Penso a quanto dolore l’essere umano vive quando messo davanti alla sua genesi, all’ineluttabilità della sequenza cromosomica, quella che ci lega a genitori, antenati, luoghi, culture. Penso alle terribili operazioni d’ingegneria culturale e genetica che si tentano, ad una fantascienza che non appare più come tale, allo spettro della cibernetica (Heidegger docet).
            La memoria non riconosce la proprietà commutativa: se inverto i fattori, il prodotto non sarà mai lo stesso! La letteratura insegna.
            Fare della buona letteratura è un dovere intellettuale, un’onestà da rintracciare, un imperativo assoluto appeso sulla desolazione del qualunquismo. Insomma: la memoria m’invita a leggere bene per scrivere bene, per comunicare impiegando registri espressivi decifrabili malgrado la complessità e raffinatezza di una ricerca linguistica.
           
            La memoria intermittente. Non so come l’ho rintracciata, quest’espressione. Intermettere: verbo irregolare italiano poco usato se non per generare uno stato l’intermittenza, che richiama le catene luminose con le quali agghindiamo alberi di natale,presepi, case etc. E’ interessante la similitudine che si viene a generare. Metter luce nel buio o buio nella luce. Mettere memoria nella vita presente, nell’oggi o l’oggi nella memoria. Si schiude un universo! L’oggi, l’adesso, l’hic et nunc, per essere narrato necessita sempre della memoria anche laddove vado ad impiegare la presa diretta del presente: ci sarà sempre un luogo, un anfratto, un chiara occasione per fare memoria.
            Mi vengono i brividi: la letteratura può veramente tanto! Finzione e realtà, stati onirici…le connessioni potrebbero risultare infinite, condurre all’alienazione almeno che non s’impari a nutrire il presente dell’atto creativo con il controllo dell’attenzione, con l’esserci, padrone della situazione.
            …e poi: ogni libro rappresenta un pretesto.

venerdì 13 maggio 2011

Attorno ai castelli (di rabbia)

   Venerdì, circa alle nove di sera, orario quando sono solito scendere nel mio studio per respirare l’aria dei libri, ho trovato il consueto momentaneo rifugio tra le sudate carte.
  Da giorni cerco di condurre a termine una lettura impegnativa e sento l’entusiasmo morire lentamente malgrado l’altezza dei pensieri che Margherita Porete mi richiama a sfiorare. Probabilmente la mia anima non è semplice ed annichilata come richiesto dal trattato medievale in questione. La cruda verità è che la mia mente urla spazi dove svagare l’immaginazione e le atmosfere rarefatte della mistica, spesso, mi sospendono in una dimensione di ansia ed insoddisfazione nonostante l’apertura sull’attesa che esita nel grigiore della situazione.
   Mi sono seduto al pianoforte ed ho intonato il solito minuetto di Bach per sgranchire le dita.   Talvolta la musica scorre…talvolta s’inceppa: come la vita, nel sue fluire…pesto ancora qualche nota prima di dedicarmi ai libri, perché e di questi che sento il richiamo.
   Ne ho preparati un certo numero da portare in montagna, dove so già che le librerie non basteranno. Titoli diversi. Titoli e ricordi di letture. Suggestioni. Emozioni suscitate e vissute. Nomi. Geoff Dyer, Arthur Schnitzler, Gianni Melega col suo tempo lungo, forse troppo, Toni Morrison e poi lui, Baricco.
Non ho mai letto nulla, per intero, di quanto scritto da Alessandro Baricco. I suoi libri li ho comprati, coccolati, sfogliati, piluccati e poi abbandonati sommersi nelle pile che si levano ovunque, a casa mia. I libri arredano, anche.
   Castelli di rabbia. Il primo romanzo. L’esordio fortunato di uno scrittore, l’opera prima, bla bla bla… no! Ripeto, non ho mai terminato un libro di Baricco, ma su di lui ho letto molto, comprese quelle solenni stroncature diligentemente redatte e qualche volta arringate dal sottoscritto così, quando travolto dal puor parler, nel gorgo dell’eterna chiacchiera quando si sfogliano i quotidiani e si sorbiscono bicchieri di cartizze.
   Apro il libro. Uno sbuffo di polvere. Poi un segno, anche se fermato dall’inverecondo orecchio che raramente imprimo alle pagine. Mi sono arenato dopo il primo capitolo e quella piegatura che offende la carta ne è la materica testimonianza.
   Provo a ricordare perché l’ho abbandonato. Forse non mi sentivo ancora pronto per digerire l’opera prima di un pluriosannato giovane autore piacente alle donne, per di più. Magari ancora non intuivo l’importanza dello scrivere nel tentativo di rintracciare un linguaggio, un registro.
   Magari mi sono semplicemente annoiato!
   E per ammazzare la noia l’ho ripreso. Daccapo. Ho spianato l’orecchio e mi sono concesso.
  Ho letto pagine dopo pagine di fine letteratura, buona. Voli poetici, ferite carnali. Esotiche avventure, memoria storica, stravaganze e licenze retoriche. Vita incarnata. Troppo per la mia sensibilità.
   E la storia? Insomma: la struttura narrativa del romanzo?
  Ci sono storie che non sono storie. Chissà…parecchio della mia vita non fa una briciola di storia. Uguale: per qualche tempo mi sono limitato a vegetare, a subire l’esistenza nella più slavata inconsapevolezza.
  Non saprei! Riesce un intreccio di non storie a reggere la pretesa della narrazione e divenire romanzo?
Secondo Baricco sì. Castelli di Rabbia è un romanzo di non storie. Devo ammettere che ho apprezzato la buona scrittura che sorregge il libro. Buona ed artificiale, in alcuni tratti. Finta, magari, per l’eccessivo barocchismo delle situazioni narrate. Una buona scrittura nutrita e sorretta da buone letture. E poi?
   Poi Rail e Jun. Chissà come ha immaginato Jun l’autore? Per me una donna bellissima, evanescente. Quelle femmine eteree e pazienti almeno fino a quando non arrivano a dire basta. La donna del sognatore avventuriero. La donna sottomessa, come molti vorrebbero. L’amante sempre pronta a concedersi, con rassegnata serenità. Quella che si lascia dominare prima di giungere alla ribellione, spesso silenziosa, ma lacerante.
   Pekish, Pehnt, Horeau. Locomotive e treni, rotaie, progresso regresso. Navi comandate da capitani depravati e meschini prigionieri di conradiane tenebre, disperati e e menomati. Mancano le solite napoleoniche battaglie ed ussari e dragoni che impavidamente caricano…
   Ma cosa centro io con questo libro? Potrei dire quello che centro con i tanti che ho letto. Con questo  in particolare?
    Forse posso spartire l’amarezza tetra che trasuda da non storie che pagano la rabbia di non poter gustare l’ebbrezza di divenire storie e che, come tanti castelli di sabbia, l’inclemenza delle onde travolge. Dunque?
    Pare che il problema, infine, rimane mio, personale e seguito dalla domanda: cosa cerco in un libro? Cosa chiedo alla lettura?
   Con questo romanzo ho rintracciato e decifrato un frammento di storia. Una storia mia, personale, una storia da narrare…e dell’altrui rabbia? Della rabbia del mondo, quella degli innocenti sommersi?
   Quello che ho intuito è che la salvezza impone il distacco, invoca la giusta distanza, quella necessaria per rimanere travolti dai treni del Signor Rail, quelli che sfrecciano suklle rotaie posate nella fredda campagna dell’ingegner Bonetti.

   Mercoledì. Ho finito di leggere Castelli di Rabbia, al mattino presto, dopo avere portato i figli a scuola, regolato il cane, atteso che mia moglie terminasse la sua toeletta, che il sapore del caffè forte scemasse come il profumo che mi ha svegliato dal torpore.
   L’ho guardata, mia moglie, dalla mia poltrona, dove leggo. Lei, in piedi davanti allo specchio del bagno, la porta lasciata maliziosamente aperte per cogliere quei gesti che sanno di femminile sensualità. No, lei non sarà mai Jun poiché le avventure ed i sogni li vuole vivere con me. Perché sa che essere compagni significa condividere…perché…perché...perché è più vera e per questo più bella.
   L’ho terminato, questa volta, il primo romanzo di Baricco. Senza trionfi e fanfare. Leggerò qualcos’altro di suo? Non so. Lascio al caso. Comunque l’ho portato a termine. La ragione?
   Beh, alcuni amici mi hanno fatto comprendere che un lavoro non lo si abbandono a metà. Lodevole!
   Così leggere è un lavoro?
  Certo. Leggere per scrivere anche perché, talvolta, quanto incomincia in una biblioteca, talvolta, termina nel luogo dove è principiato…dopo un viaggio, s’intende, dopo un’avventura…magari in treno, lungo binari che mai s’incontreranno mentre vita e letteratura spesso s’intrecciano nel declinare delle passioni.

venerdì 6 maggio 2011

Cercando Forrester: un invito a vivere per scrivere (o il contrario?)

Cinema e scrittura. Due forme espressive che spesso non s'incontrano o che quando accade, tendono a sopprimersi l'una con l'altra. Che trasporre un romanzo sullo schermo sia impresa ardua ormai lo sappiamo e la storia del cinema offre esempi di ogni genere. Al di là di queste considerazioni critiche, rimane interessante soffermarsi su come e quanto un film possa riaccendere il fuoco della scrittura (e della lettura) in chi ancora confida nella certezza che arte e vita possano generare umana redenzione. Ho rivisto proprio ieri sera il film di Gus van Sant Cercando Forrester e me ne sono ri-innamorato. Non lo posso negare, ma laddove si accenna al gesto dello scrivere, trovo sempre la forza per riprendere quella che è stata ed è la mia prima vocazione: la scrittura.
Che bello! Un film dove si cerca di rappresentare la scrittura in un tutta la sua complessità e profonda umanità. Il gesto dello scrivere rimane inevitabilmente incarnato nella quotidianità così come, allo stesso tempo, rompe i limiti della consuetudine esistenziali per proiettarci in quella dimensione dello spirito umano dove il mistero della poiesis, per dirla con i greci, emana in tutta la sua disarmante totalità. Roba da rimanere folgorati! Poi, quando vita e scrittura s'intrecciano in una dinamica che spesso cede alla dialettica quando non all'opposizione fino a farsi contrario...insomma: ce ne è per soffermarsi giorni interi e lasciare che si faccia ogni volta notte.
Che Cercando Forrester sia un bel film è chiaro, anche se bello non rende, anzi, rischia quella stucchevolezza con la quale congediamo una qualsiasi esperienza visiva e non. Per meglio intenderci: questa è una pellicola da ascoltare, dopo essere stata vista, e non solo per il commento musicale (immediato e raffinato). Sono i dialoghi a lasciarmi sempre più incuriosito. Una storia che potrebbe risultare scontata (quanti romanzi, racconti, film ed altro, trattano del rapporto maestro-allievo?), si trasforma in un invito alla scoperta di un mondo che solo il narrare per narrare, riesce a giustificare ed a sorreggere.
Scrivere per scrivere. Un'affermazione che m'intriga ed ispira. Un concepire il gesto con quella libertà che permette di creare senza troppi ostacoli dando libero corso all'immaginazione. Scrivere per leggere...leggere per scrivere, vorrei passare il mio tempo così e trovare la giusta cattedra anche se quella che ho mi basta, quando scorre la passione.
Ma entriamo nella casa di Forrester. Un appartamento appollaiato all'ultimo piano di un anonimo edificio. Mattoni erosi dallo smog, infissi marci di pioggia, vetri perfetti. Un universo mondo che permette di lasciare fuori dalle finestre il tutto che inesorabile scorre.
Le case degli scrittori sono sempre una scoperta. Librerie stracolme. Oggetti d'ogni genere esposti con perizia museale, cumuli di paccottiglia...gli umani attaccamenti, quelli che dovrebbero esorcizzare le paure, quelli che dovremmo abbandonare. Ci starei in quella casa...a scrivere, a leggere, a sfogliare libri cotti come il pane. E' la mia casa! Quel disordine controllato che amo, dove tra appunti d'ogni genere si trovano le bollette pagate, le cartoline ricevute, gli appunti di una vita, le riviste spiegazzate ed i libri intosi, ancora incellofanati.
I quaderni di Jamal sono i miei, quelli che mio padre mi donava. Quaderni forniti dalla Cassa di Risparmio delle Province Lombarde ai suoi clienti. Li conservo ancora, da qualche parte, appilati e nascosti come preziose reliquie. Ero adolescente e svogliato studente al liceo quando vergai i miei primi incerti versi, quando trangugiai letteratura d'ogni genere ebbro di vivere e timido fino all'estremo, impaurito dal confronto con gli altri, il mio inferno.
Tra i libri di Jamal e di Forrester ho riconosciuto i miei. I russi, sterminati come il placido Don (Sholokov permettendo), i francesi incontrati attraverso Thais e Jean-Christophe...Zola...pochi italiani, comunque sceltissimi.
...ecco che mi ricapita! Sto scrivendo per scrivere e ne sono pienamente consapevole.
...è la paura di avere successo a far si che i sogni non s'avverino...