venerdì 13 maggio 2011

Attorno ai castelli (di rabbia)

   Venerdì, circa alle nove di sera, orario quando sono solito scendere nel mio studio per respirare l’aria dei libri, ho trovato il consueto momentaneo rifugio tra le sudate carte.
  Da giorni cerco di condurre a termine una lettura impegnativa e sento l’entusiasmo morire lentamente malgrado l’altezza dei pensieri che Margherita Porete mi richiama a sfiorare. Probabilmente la mia anima non è semplice ed annichilata come richiesto dal trattato medievale in questione. La cruda verità è che la mia mente urla spazi dove svagare l’immaginazione e le atmosfere rarefatte della mistica, spesso, mi sospendono in una dimensione di ansia ed insoddisfazione nonostante l’apertura sull’attesa che esita nel grigiore della situazione.
   Mi sono seduto al pianoforte ed ho intonato il solito minuetto di Bach per sgranchire le dita.   Talvolta la musica scorre…talvolta s’inceppa: come la vita, nel sue fluire…pesto ancora qualche nota prima di dedicarmi ai libri, perché e di questi che sento il richiamo.
   Ne ho preparati un certo numero da portare in montagna, dove so già che le librerie non basteranno. Titoli diversi. Titoli e ricordi di letture. Suggestioni. Emozioni suscitate e vissute. Nomi. Geoff Dyer, Arthur Schnitzler, Gianni Melega col suo tempo lungo, forse troppo, Toni Morrison e poi lui, Baricco.
Non ho mai letto nulla, per intero, di quanto scritto da Alessandro Baricco. I suoi libri li ho comprati, coccolati, sfogliati, piluccati e poi abbandonati sommersi nelle pile che si levano ovunque, a casa mia. I libri arredano, anche.
   Castelli di rabbia. Il primo romanzo. L’esordio fortunato di uno scrittore, l’opera prima, bla bla bla… no! Ripeto, non ho mai terminato un libro di Baricco, ma su di lui ho letto molto, comprese quelle solenni stroncature diligentemente redatte e qualche volta arringate dal sottoscritto così, quando travolto dal puor parler, nel gorgo dell’eterna chiacchiera quando si sfogliano i quotidiani e si sorbiscono bicchieri di cartizze.
   Apro il libro. Uno sbuffo di polvere. Poi un segno, anche se fermato dall’inverecondo orecchio che raramente imprimo alle pagine. Mi sono arenato dopo il primo capitolo e quella piegatura che offende la carta ne è la materica testimonianza.
   Provo a ricordare perché l’ho abbandonato. Forse non mi sentivo ancora pronto per digerire l’opera prima di un pluriosannato giovane autore piacente alle donne, per di più. Magari ancora non intuivo l’importanza dello scrivere nel tentativo di rintracciare un linguaggio, un registro.
   Magari mi sono semplicemente annoiato!
   E per ammazzare la noia l’ho ripreso. Daccapo. Ho spianato l’orecchio e mi sono concesso.
  Ho letto pagine dopo pagine di fine letteratura, buona. Voli poetici, ferite carnali. Esotiche avventure, memoria storica, stravaganze e licenze retoriche. Vita incarnata. Troppo per la mia sensibilità.
   E la storia? Insomma: la struttura narrativa del romanzo?
  Ci sono storie che non sono storie. Chissà…parecchio della mia vita non fa una briciola di storia. Uguale: per qualche tempo mi sono limitato a vegetare, a subire l’esistenza nella più slavata inconsapevolezza.
  Non saprei! Riesce un intreccio di non storie a reggere la pretesa della narrazione e divenire romanzo?
Secondo Baricco sì. Castelli di Rabbia è un romanzo di non storie. Devo ammettere che ho apprezzato la buona scrittura che sorregge il libro. Buona ed artificiale, in alcuni tratti. Finta, magari, per l’eccessivo barocchismo delle situazioni narrate. Una buona scrittura nutrita e sorretta da buone letture. E poi?
   Poi Rail e Jun. Chissà come ha immaginato Jun l’autore? Per me una donna bellissima, evanescente. Quelle femmine eteree e pazienti almeno fino a quando non arrivano a dire basta. La donna del sognatore avventuriero. La donna sottomessa, come molti vorrebbero. L’amante sempre pronta a concedersi, con rassegnata serenità. Quella che si lascia dominare prima di giungere alla ribellione, spesso silenziosa, ma lacerante.
   Pekish, Pehnt, Horeau. Locomotive e treni, rotaie, progresso regresso. Navi comandate da capitani depravati e meschini prigionieri di conradiane tenebre, disperati e e menomati. Mancano le solite napoleoniche battaglie ed ussari e dragoni che impavidamente caricano…
   Ma cosa centro io con questo libro? Potrei dire quello che centro con i tanti che ho letto. Con questo  in particolare?
    Forse posso spartire l’amarezza tetra che trasuda da non storie che pagano la rabbia di non poter gustare l’ebbrezza di divenire storie e che, come tanti castelli di sabbia, l’inclemenza delle onde travolge. Dunque?
    Pare che il problema, infine, rimane mio, personale e seguito dalla domanda: cosa cerco in un libro? Cosa chiedo alla lettura?
   Con questo romanzo ho rintracciato e decifrato un frammento di storia. Una storia mia, personale, una storia da narrare…e dell’altrui rabbia? Della rabbia del mondo, quella degli innocenti sommersi?
   Quello che ho intuito è che la salvezza impone il distacco, invoca la giusta distanza, quella necessaria per rimanere travolti dai treni del Signor Rail, quelli che sfrecciano suklle rotaie posate nella fredda campagna dell’ingegner Bonetti.

   Mercoledì. Ho finito di leggere Castelli di Rabbia, al mattino presto, dopo avere portato i figli a scuola, regolato il cane, atteso che mia moglie terminasse la sua toeletta, che il sapore del caffè forte scemasse come il profumo che mi ha svegliato dal torpore.
   L’ho guardata, mia moglie, dalla mia poltrona, dove leggo. Lei, in piedi davanti allo specchio del bagno, la porta lasciata maliziosamente aperte per cogliere quei gesti che sanno di femminile sensualità. No, lei non sarà mai Jun poiché le avventure ed i sogni li vuole vivere con me. Perché sa che essere compagni significa condividere…perché…perché...perché è più vera e per questo più bella.
   L’ho terminato, questa volta, il primo romanzo di Baricco. Senza trionfi e fanfare. Leggerò qualcos’altro di suo? Non so. Lascio al caso. Comunque l’ho portato a termine. La ragione?
   Beh, alcuni amici mi hanno fatto comprendere che un lavoro non lo si abbandono a metà. Lodevole!
   Così leggere è un lavoro?
  Certo. Leggere per scrivere anche perché, talvolta, quanto incomincia in una biblioteca, talvolta, termina nel luogo dove è principiato…dopo un viaggio, s’intende, dopo un’avventura…magari in treno, lungo binari che mai s’incontreranno mentre vita e letteratura spesso s’intrecciano nel declinare delle passioni.

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