mercoledì 11 marzo 2015

Sulla (presunta) bontà dei poeti


Chissà per quale arcana ragione nell’immaginario collettivo il poeta viene sempre visto come una persona totalmente fuori dagli schemi del conformismo sociale. Spesso li si considera dei buoni, visto che il loro strambo lavoro li conduce a trafficare con le passioni, i sentimenti, le emozioni al punto che, anche quando scendono nei recessi del profondo per scoprire le più turpi perversioni, tutto viene risolto nell’ovatta del sogno, come se sognare fosse un passatempo occasionale e non una dimensione che la nostra mente abita a tutti gli effetti.

“Ma dai! E’ un poeta”, si sente dire e poi via che scatta il solito risolino spesso accompagnato da espressioni di compatimento come se tutto il lavorio poetico, che non esclude il cammino nella sofferenza, altro non sia che una perdita di tempo. E anche quando il poeta scade nell’eccesso e transita per la sua stagione all’inferno, il trattamento rimane  analogo: “Ma è un poeta! Cosa ci dovremmo aspettare da un perdigiorno. Poveraccio! Nessuno gli ha mai detto che la poesia fa male?” Così, il passo che separa la bontà dalla stupidità o dall’abisso della demenza, si restringe terribilmente al punto che ogni caduta rimane inevitabile. La bontà assume le tinte della follia, della possessione, dell’eccesso per arrivare a scoprire che l’esser buoni, in questo mondo, viene visto come il marchio della diversità, il sigillo dell’emarginazione.

Ebbene, in barba al pensiero comune, il sottoscritto non si sente per nessuna ragione buono. I poeti non sanno essere buoni e soprattutto non devono esserlo con questo mondo. La bontà non è di casa nelle nostre contrade. Basta osservarsi attorno senza troppe cerimonie. Talvolta, proprio per sfuggire alla catastrofe del quotidiano, il poeta si ritrova ad essere un abilissimo fingitore, come Pessoa, perché non ragiona con il cervello ma con l’immaginazione e attraverso questo filtro scorge l’assurdo del girare in tondo al quale ogni destino umano sembra essere condannato. Nel pensiero comune uno che scopre l’inganno e te lo sbatte sul grugno non potrà mai essere considerato un buono. Il buono, sempre nel pensiero comune, è quello che ti da la pacca sulla spalla, che ti ascolta contrito, che si comporta come il cordialone di turno, che paga il conto al bar…

E se il fingere fosse una copertura? Insomma: visto che quando scopri il funzionamento della macchina rischi che i ben pensanti ti facciano subito la pelle perché potrai fare tutto, anche della poesia, ma non avvertire che l’inganno è montato nel meccanismo e che per buona pace di una logica che assume svariate caratteristiche, nessuno deve andare a scomporre, cosa gli rimane da fare?

L’unica possibilità è il cammino dentro, quello che ti implica la rinuncia e il distacco proprio per evitare di rimanere impigliati nelle maglie del sistema. Ecco, allora, la vera questione: il poeta deve essere assolutamente libero. Un verso riuscito è un granello di libertà conquistata. Allora, dopo le dovute comprensioni, un uomo libero, un poeta, si scoprirà buono perché tollerante nei confronti dell’altrui libertà, anche quella di rimanere impigliati nelle reti dell’uccellatore. 

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